
In natura esistono strategie riproduttive che sfidano la nostra immaginazione. Una delle più affascinanti riguarda il Rhodeus amarus, conosciuto in italiano come rodio amaro, un piccolo ciprinide d’acqua dolce diffuso in Europa e Asia occidentale. Questo pesce ha sviluppato una tecnica straordinaria per proteggere la sua prole: depone le uova all’interno delle conchiglie dei bivalvi d’acqua dolce, come quelle del genere Anodonta.
Durante la stagione riproduttiva, che va da aprile a giugno, le femmine di Rhodeus amarus sviluppano un lungo ovopositore flessibile, simile a un sottile tubo, che consente loro di introdurre le uova direttamente nella cavità branchiale dei bivalvi. Questi molluschi continuano la loro attività filtrante, mantenendo un flusso costante di acqua e ossigeno che offre un ambiente sicuro e stabile per le uova.
Il maschio, riconoscibile per la sua vivace colorazione nuziale (con sfumature rosse e blu metallico), resta nelle vicinanze per fecondare le uova non appena vengono deposte. Le larve, una volta schiuse, rimangono protette all’interno della conchiglia per alcune settimane, nutrendosi dei nutrienti presenti nella cavità e beneficiando della protezione offerta dal guscio calcareo.
Mentre le uova e le larve del rodio amaro traggono grande beneficio dall’ospitalità dei molluschi, questi ultimi possono risentire della presenza dei piccoli pesci, che talvolta danneggiano i loro stessi embrioni o ne compromettono il corretto sviluppo.
Curiosamente, anche i bivalvi hanno una fase vitale legata ai pesci: le loro larve microscopiche, dette glochidi, si attaccano temporaneamente alle branchie o alle pinne dei pesci per disperdersi e colonizzare nuovi habitat. Questo scambio di “favori”, sebbene non perfettamente simmetrico, mostra quanto siano intricati i legami negli ecosistemi acquatici.

Tra le fitte chiome dei boschi dell’Asia orientale, un piccolo uccello canoro, lo scricciolo azzurro (Malurus cyaneus), nasconde un segreto evolutivo sorprendente: un richiamo che funziona come una vera e propria “password” biologica. Questo sistema acustico sembra essere un’arma raffinata contro un nemico astuto: il cuculo bronzato (Chrysococcyx basalis), un parassita delle cove che affida la propria prole a genitori adottivi ignari.
Ma come funziona questa “password”? E perché è così importante per la sopravvivenza dei piccoli scriccioli?
Il cuculo bronzato, come molti suoi parenti, è un maestro dell’inganno. La femmina depone di nascosto le proprie uova nel nido dello scricciolo azzurro. Quando le uova del cuculo si schiudono, i pulcini parassiti possono crescere insieme alla nidiata dello scricciolo, entrando in competizione per il cibo. A volte, i pulcini del cuculo spingono fuori dal nido i fratellastri o monopolizzano l’attenzione dei genitori adottivi grazie ai loro richiami insistenti e alle bocche spalancate che imitano quelle degli ospiti.
Questo parassitismo comporta un costo altissimo per lo scricciolo azzurro: i suoi veri piccoli rischiano di morire di fame mentre nutre un intruso.
Per contrastare questo inganno, gli scriccioli azzurri hanno sviluppato un meccanismo difensivo elegante. Durante il periodo di incubazione, i genitori emettono un richiamo vocale caratteristico, percepito dalle uova.
Questo richiamo viene memorizzato dai piccoli scriccioli ancora prima di schiudersi. Una volta nati, i pulli autentici rispondono ai genitori riproducendo il motivo acustico sentito nell’uovo. Se nel nido c’è un pulcino che non sa emettere la “password” corretta, i genitori lo riconoscono come intruso e smettono di nutrirlo.
Questo comportamento riduce drasticamente il successo riproduttivo del cuculo bronzato. Essendo il cuculo incapace di apprendere la password durante l’incubazione (perché la femmina depone l’uovo dopo che la covata dello scricciolo è già iniziata), il piccolo parassita viene identificato e lasciato morire di fame.
L’ipotesi della “password” dello scricciolo azzurro rappresenta un esempio affascinante di coevoluzione tra parassita e ospite. Mentre il cuculo sviluppa nuove strategie per ingannare gli scriccioli, questi affinano i loro meccanismi di riconoscimento per difendere la propria prole.
È una corsa agli armamenti evolutiva in miniatura, in cui il linguaggio vocale diventa l’arma decisiva.

La cura dei piccoli, in natura, è uno degli aspetti più affascinanti del comportamento animale, ma alcune specie spingono questo concetto oltre i confini della genetica, assumendo il ruolo di genitori adottivi per pulcini che non hanno generato. Tra i casi più sorprendenti c’è quello del Cacatua pettorosa (Lophochroa leadbeateri). Ma cosa spinge questi uccelli a prendersi cura di piccoli non loro?
Questo pappagallo vive nelle aree aride e semiaride dell’Australia. dove forma coppie monogame e costruisce il nido nelle cavità degli alberi. In questa specie, maschio e femmina collaborano strettamente nell’incubazione delle uova e nell’alimentazione dei pulcini, condividendo equamente il ruolo di genitori.
Proprio all’interno dei loro territori è stato osservato un comportamento che ha incuriosito gli etologi: alcune coppie si prendono cura di pulcini provenienti da altri nidi. Le cause possono essere diverse. Talvolta, a seguito di eventi come tempeste, predatori o malattie, i genitori biologici scompaiono e altre coppie vicine assumono la responsabilità di allevare i piccoli orfani. In altri casi, durante episodi di competizione territoriale tra coppie, può verificarsi uno scambio accidentale di uova o pulcini, che finiscono in un nido diverso e vengono cresciuti come se fossero figli legittimi. Esistono poi situazioni in cui individui giovani o adulti senza prole partecipano attivamente alla cura dei piccoli di altri, in quello che viene definito “alloparental care”, un comportamento che permette loro di acquisire esperienza per future nidiate.
A prima vista, l’adozione potrebbe sembrare un comportamento svantaggioso: allevare un piccolo comporta un grande investimento di tempo ed energia. Eppure, vi sono diverse spiegazioni evolutive che possono chiarire questa scelta. Per i giovani inesperti, ad esempio, nutrire e proteggere un pulcino rappresenta un’opportunità per imparare le competenze necessarie a diventare buoni genitori nelle stagioni successive. Se invece i pulcini adottati sono parenti stretti, come fratelli o nipoti, la loro sopravvivenza contribuisce comunque alla diffusione dei geni della famiglia, un fenomeno noto come “fitness inclusiva”. Inoltre, nelle specie sociali come il cacatua pettorosa, la presenza di un numero adeguato di giovani all’interno del gruppo può rafforzare la coesione sociale e aumentare le possibilità di sopravvivenza collettiva, secondo i principi della selezione di gruppo.
Sebbene nei pappagalli l’adozione non sia diffusa quanto in altre specie, come i mammiferi marini o alcuni uccelli acquatici, la Lophochroa leadbeateri offre un esempio della straordinaria flessibilità delle strategie parentali. Questo comportamento altruista rivela un aspetto fondamentale della biologia di questi uccelli: la capacità di adattarsi a un ambiente difficile e imprevedibile come quello dell’outback australiano.

Nel mondo naturale la capacità di ricordare informazioni cruciali può fare la differenza tra la vita e la morte. Un esempio straordinario di questo è rappresentato dalla Cincia bigia americana (Poecile atricapillus), un piccolo passeriforme che ha sviluppato una memoria spaziale eccezionale per far fronte alle rigide condizioni invernali del Nord America.
E’ un uccellino agile e curioso, diffuso nelle foreste boreali e temperate del Canada e degli Stati Uniti settentrionali; ambienti dove l’inverno può durare diversi mesi e dove la disponibilità di cibo è estremamente variabile.
Durante la bella stagione, la cincia bigia non si limita a nutrirsi: raccoglie semi, insetti e piccoli frammenti di cibo che nasconde in centinaia di piccoli depositi sparsi nel suo territorio. Questo comportamento, noto come “caching”, rappresenta un’assicurazione alimentare per l’inverno, quando il cibo scarseggia.
Ma il caching richiede una capacità mentale fuori dal comune: ricordare esattamente dove sono stati nascosti tutti quei piccoli tesori, spesso in boschi pieni di nascondigli simili tra loro.
La cincia bigia americana ha evoluto una soluzione sorprendente: durante l’autunno, la regione del cervello chiamata ippocampo (responsabile della memoria spaziale) aumenta di volume grazie alla produzione di nuovi neuroni. Questo incremento neurale le permette di memorizzare migliaia di punti di caching, distinguendo alberi, rami e persino dettagli della corteccia che per noi sarebbero indistinguibili.
Quando l’inverno finisce e la necessità di ricordare diminuisce, l’ippocampo torna alle dimensioni normali.
Individui provenienti da zone con inverni più rigidi hanno ippocampi più sviluppati rispetto a quelli di aree con inverni miti, dimostrando un adattamento geografico.
La memoria spaziale della cincia bigia americana non è solo una curiosità etologica: è un esempio di plasticità cerebrale e di come il cervello degli animali possa modificarsi in risposta a esigenze ecologiche.
Piccola e apparentemente fragile, la cincia bigia americana nasconde dietro il suo aspetto minuto un’intelligenza raffinata. La sua capacità di trasformare il cervello in un sofisticato “GPS biologico” le permette di sopravvivere ai rigori invernali e ci ricorda che, nella natura, la mente può essere un’arma potente quanto le ali.

L’infanticidio, ossia l’uccisione intenzionale dei piccoli della stessa specie, è un comportamento che suscita scalpore e domande etiche quando osservato negli animali sociali. Tra i primati, questo fenomeno è particolarmente documentato nei colobi e nei langur, come l’Entelli (Semnopithecus entellus), una scimmia che popola le regioni dell’Asia meridionale. Ma perché avviene? Quali sono le cause evolutive e le implicazioni per la struttura sociale di questa specie?
L’Entelli, o langur grigio, è un primate appartenente alla famiglia Cercopithecidae, diffuso principalmente in India, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka. Questo animale vive in gruppi sociali complessi che possono includere diverse decine di individui. I gruppi sono generalmente organizzati in harem con un singolo maschio dominante e più femmine, anche se non mancano strutture multi-maschio in determinate condizioni ecologiche.
Negli Entelli, l’infanticidio avviene quasi esclusivamente in seguito a un cambio di maschio dominante. Quando un nuovo maschio prende il controllo di un gruppo, spesso uccide i piccoli ancora in fase di allattamento. Questo comportamento, apparentemente crudele, ha una spiegazione evolutiva: accelerare il ritorno delle femmine alla fertilità.
Le femmine dei langur, infatti, non vanno in estro mentre stanno allattando. Eliminando i piccoli del predecessore, il nuovo maschio riduce il tempo di attesa per potersi riprodurre e trasmettere i propri geni.
Per il maschio infanticida, la strategia può essere vincente in termini di fitness evolutiva, ma comporta rischi notevoli. Le femmine, infatti, non rimangono passive: possono formare alleanze per difendere i loro cuccioli, graffiare, mordere e perfino emettere vocalizzazioni di allarme per attirare altri membri del gruppo. Inoltre, nei gruppi multi-maschio, i maschi subordinati possono ostacolare l’aggressore, aumentando la sopravvivenza dei piccoli.
Le femmine di Entelli hanno sviluppato diverse strategie per contrastare l’infanticidio:
> Accoppiamento multiplo: accoppiandosi con più maschi, possono confondere la paternità, riducendo la probabilità che un nuovo arrivato uccida un piccolo che potrebbe essere suo figlio.
> Formazione di coalizioni: femmine imparentate o amiche possono cooperare per respingere il maschio aggressore.
> Migrazione: in alcuni casi, femmine con piccoli possono lasciare il gruppo per unirsi ad altri dove il rischio di infanticidio è minore.
L’infanticidio contribuisce a plasmare la dinamica sociale dei gruppi di entelli. I maschi tendono a rimanere nel gruppo dominante per un periodo limitato (di solito 2-3 anni), il tempo sufficiente a fecondare le femmine e vedere crescere la propria prole prima di essere scacciati da un rivale più giovane e vigoroso. Questo ciclo favorisce una continua instabilità sociale e può influenzare anche la demografia del gruppo.

Nel mondo degli insetti, dove la vita spesso si gioca in pochi istanti, l’evoluzione ha affinato strategie sorprendenti per sfuggire ai predatori. Una delle più affascinanti è quella della mosca Zonosemata vittigera, un piccolo dittero che ha fatto della mimetizzazione comportamentale la sua arma più potente.
Appartenente alla famiglia Tephritidae, Zonosemata vittigera è una mosca dalle ali caratteristiche: ogni ala presenta due bande scure trasversali che ricordano l’aspetto di una tela di ragno stilizzata. Vive principalmente in Nord America e frequenta ambienti aperti dove il rischio di essere predato da ragni saltatori è molto alto.
Il suo principale predatore è il ragno saltatore, un abile cacciatore che sfrutta la vista acuta per individuare e attaccare le prede. Qui entra in gioco la strategia della mosca, che consiste in un comportamento ingannevole che confonde il predatore.
Quando Zonosemata vittigera percepisce la presenza di un ragno saltatore, compie un gesto peculiare: apre e chiude lentamente le ali, muovendole in un modo che imita i movimenti di un ragno.
Questo comportamento, chiamato “display alare mimetico”, induce il ragno saltatore a percepire la mosca come un altro ragno (potenzialmente aggressivo o territoriale) invece che come una preda. Il predatore, disorientato, spesso evita l’attacco o addirittura si ritira.
È un caso emblematico di mimetismo batesiano comportamentale, dove non è solo l’aspetto a ingannare, ma anche l’azione.
Zonosemata vittigera ci insegna che l’inganno, nel mondo naturale, può essere una questione di vita o di morte. Le sue ali non sono solo strumenti di volo, ma veri e propri segnali ingannevoli che confondono i predatori e mantengono in equilibrio il delicato gioco della sopravvivenza.

Quando pensiamo alle api, la mente corre subito alla classica ape mellifera (Apis mellifera), con il suo inconfondibile ronzio e il pungiglione sempre pronto a difendere l’alveare. Ma nel vastissimo mondo degli imenotteri esistono “api che api non sembrano” e che sfidano la nostra idea tradizionale di questi insetti. Tra queste, un gruppo affascinante è quello delle api melipone (Melipona spp.), le cosiddette api senza pungiglione.
Le Melipona appartengono alla tribù Meliponini e sono diffuse soprattutto nelle aree tropicali e subtropicali dell’America Centrale e Meridionale. Sono note per una caratteristica sorprendente: hanno perso il pungiglione funzionale. Nonostante ciò, sono tutt’altro che indifese; utilizzano le mandibole, resine e un comportamento collettivo per respingere i predatori.
Queste api hanno un ruolo ecologico cruciale come impollinatrici: moltissime piante, incluse importanti colture tropicali come il cacao e il mango, dipendono da loro per la fruttificazione.
Anche le Melipona producono miele, ma in quantità molto inferiori rispetto all’ape mellifera. Il loro miele ha un sapore più acidulo e aromatico, una consistenza fluida e proprietà antibatteriche molto apprezzate nelle medicine tradizionali. In molte culture indigene, questo miele è considerato un vero “oro liquido” e viene usato non solo come alimento ma anche come rimedio naturale.
A differenza delle api mellifere che costruiscono i classici favi verticali, le Melipona realizzano nidi complessi con strutture a forma di spirale o “pane di cera”, spesso in cavità degli alberi o anche nel terreno.
La loro società è organizzata in caste (regina, operaie e fuchi), ma con dinamiche riproduttive uniche che differiscono da quelle delle api “tradizionali”.

Nel vasto e frastagliato litorale del Pacifico nordoccidentale, tra scogliere battute dalle onde e spiagge ricoperte di conchiglie, vive un uccello nero e brillante, noto per la sua intelligenza fuori dal comune: il corvo nordoccidentale (Corvus caurinus). Cugino stretto del più noto corvo comune, questa specie ha sviluppato una strategia di foraggiamento sorprendente, che potremmo sintetizzare con un’espressione perfettamente italiana: "o la va o la spacca".
Tra le sue abitudini più curiose, il Corvus caurinus è noto per raccogliere molluschi bivalvi e gasteropodi, come vongole e chiocciole marine, e lanciarli in volo contro le rocce per frantumarne i gusci e accedere alla polpa interna. Questo comportamento non è solo un capriccio alimentare: è una vera e propria strategia elaborata che richiede precisione, forza e... un pizzico di rischio calcolato.
Il corvo deve infatti scegliere accuratamente: il tipo di preda (non tutte le conchiglie si rompono facilmente), l’altezza di volo (più è alta, maggiore è la probabilità di spaccare il guscio) e la superficie su cui colpire (rocce sporgenti, spigoli o tratti di strada asfaltata nei contesti urbani).
Un errore di valutazione può costare il mancato pasto… o la perdita del mollusco, che potrebbe essere rubato da un altro opportunista.
Il comportamento del Corvus caurinus non è puramente istintivo. Studi etologici suggeriscono che si tratti di un comportamento apprendibile e trasmissibile socialmente, cioè appreso osservando altri individui. I giovani corvi, infatti, non sono subito abili nello spaccare le conchiglie, ma affinano la tecnica col tempo, copiando gli adulti. Questo rende il comportamento un esempio concreto di "cultura animale": l’uso ripetuto e condiviso di una tecnica in un contesto ecologico specifico.
In alcune aree costiere urbanizzate, il Corvus caurinus ha persino imparato a sfruttare il traffico stradale. Rilascia le conchiglie su strade asfaltate e aspetta che le auto le schiaccino. In seguito, si avvicina rapidamente, a volte anche con il semaforo rosso, per nutrirsi della preda ormai aperta. Un esempio lampante di plasticità comportamentale, ovvero la capacità di adattarsi a un ambiente in continuo mutamento.
Il Corvus caurinus è molto più di un uccello costiero: è un simbolo vivente dell’intelligenza adattiva nel mondo animale. Il suo metodo di foraggiamento, tanto diretto quanto efficace, è la prova che anche nei comportamenti più semplici si cela un mondo di strategie, prove, errori e apprendimento.
Dove altri animali si fermerebbero di fronte a un guscio duro, lui si alza in volo e tenta la sorte. Perché, in fondo, per il corvo nordoccidentale vale sempre la stessa regola: o la va... o la spacca.
Nel cuore delle savane africane, tra i rami degli alberi e le distese erbose, vive un uccello nero dalla coda biforcuta e dallo sguardo penetrante: il drongo codaforcuta (Dicrurus adsimilis). Dietro il suo aspetto si cela una delle strategie di inganno più sofisticate del mondo animale.
Il drongo codaforcuta è noto per la sua abilità nel mimare i richiami di allarme di altre specie. Questa capacità non è solo un esercizio di imitazione, ma una vera e propria tattica di sopravvivenza e approvvigionamento. Quando osserva altri animali, come i suricati o i garruli, intenti a nutrirsi, il drongo emette falsi richiami di allarme, inducendo le sue "vittime" a fuggire e abbandonare il cibo. A quel punto, il drongo si precipita a raccogliere il pasto lasciato incustodito.
Ciò che rende il drongo particolarmente efficace è la sua flessibilità vocale. Non si limita a un solo tipo di richiamo, ma è in grado di variare i suoni per evitare che le altre specie si abituino ai suoi inganni. Questo comportamento suggerisce una forma di intelligenza avanzata, che alcuni ricercatori paragonano alla teoria della mente, la capacità di comprendere che gli altri individui hanno pensieri e percezioni differenti dalle proprie.
Interessante è notare che il drongo non utilizza sempre l'inganno. In presenza di veri predatori, emette autentici richiami di allarme, avvertendo gli altri animali del pericolo. Questo comportamento gli permette di mantenere una certa credibilità all'interno dell'ecosistema, bilanciando l'uso di segnali veritieri e ingannevoli a proprio vantaggio.
Il drongo codaforcuta rappresenta un esempio affascinante di come l'inganno possa evolversi come strategia adattativa nel regno animale. La sua capacità di manipolare le percezioni altrui, combinata con una notevole flessibilità vocale, lo rende uno degli imitatori più abili e intriganti della natura africana.
Nel cuore delle aride distese dell’Africa meridionale, tra le dune sabbiose del Kalahari e i paesaggi rocciosi della Namibia, si muovono piccoli mammiferi dal muso appuntito, gli occhi cerchiati e l’aria sempre vigile. Sono i suricati (Suricata suricata), animali sociali e intelligenti che hanno conquistato l’immaginario collettivo non solo per la loro simpatia, ma soprattutto per il loro sofisticato comportamento di gruppo. Non a caso vengono spesso soprannominate le "sentinelle dell’Africa".
Le città, con il loro intenso traffico e l'imponente skyline, possono sembrare lontane dall'idea di natura selvaggia. Tuttavia, se ci soffermiamo a osservare con attenzione, scopriremo un mondo affascinante di biodiversità urbana, dove la flora e la fauna hanno trovato un modo per adattarsi e prosperare in un ambiente in continua evoluzione.

Nel cuore dell’Oceania, tra le foreste pluviali e i rilievi verdeggianti della Nuova Caledonia, vive un uccello che ha sorpreso gli etologi e appassionati di tutto il mondo: il corvo della Nuova Caledonia (Corvus moneduloides). Questo passeriforme, simile a una cornacchia per dimensioni e colorazione, è oggi considerato uno degli animali più intelligenti del pianeta, capace di risolvere problemi complessi e, cosa ancora più sorprendente, di costruire e usare strumenti per procurarsi il cibo.
Già da tempo si conosceva l’abilità dei corvi nel manipolare oggetti, ma il corvo della Nuova Caledonia ha portato questo talento a un livello superiore. In natura, è stato osservato mentre spezza rametti, sagoma foglie o modella spine per creare veri e propri utensili adatti a scovare larve e insetti nascosti nei tronchi o nelle crepe della corteccia. Alcuni individui riescono persino a modellare strumenti con una curvatura specifica per migliorare la presa o la penetrazione nei pertugi.
Un comportamento particolarmente affascinante è l’uso del rametto a forma di gancio, simile a un uncino da pesca, impiegato per estrarre prede altrimenti inaccessibili.
Le scoperte sull’intelligenza di questo corvo hanno avuto un forte impatto nella comunità scientifica, poiché sfidano l’idea che l’uso di strumenti sia una prerogativa esclusiva dei primati o dell’essere umano. Studi cognitivi hanno messo in luce una forma di intelligenza causale, cioè la capacità di comprendere le relazioni tra mezzi e fini. In alcune prove sperimentali, i corvi della Nuova Caledonia sono riusciti persino a pianificare azioni future, scegliendo strumenti che sarebbero stati utili solo diversi minuti più tardi.
La domanda che molti ricercatori si pongono è: come ha fatto un uccello a sviluppare capacità tanto sofisticate? La risposta risiede probabilmente in una combinazione di fattori evolutivi. L’ambiente isolato della Nuova Caledonia, povero di predatori ma ricco di risorse nascoste o difficili da raggiungere, ha selezionato nel tempo individui sempre più abili nel manipolare oggetti per ottenere cibo. Si tratta di un classico caso di evoluzione convergente, in cui due gruppi lontani (uccelli e primati) sviluppano strategie simili per affrontare problemi analoghi.
L’ingegnosità del corvo della Nuova Caledonia non solo ci affascina per le sue implicazioni naturalistiche, ma rappresenta anche una preziosa chiave per comprendere l’evoluzione dell’intelligenza animale. Studiare come un cervello avicolo, così diverso da quello dei mammiferi, sia arrivato a soluzioni tanto avanzate, ci aiuta a esplorare nuovi modelli di pensiero, apprendimento e coscienza non-umana.
In un mondo sempre più antropocentrico, il corvo della Nuova Caledonia ci ricorda che l’intelligenza ha molte forme e che la natura, quando si tratta di inventiva, ha più di un asso nella manica... o nel becco.
Autore: Roberto Vatore

Nelle acque tranquille della costa pacifica nordamericana vive un pesce tanto curioso quanto poco noto: il Porichthys notatus, soprannominato “pesce canterino”. Nonostante il suo aspetto modesto, questo animale è protagonista di un fenomeno acustico affascinante e persino fonte di leggende locali: emette un canto notturno udibile anche fuori dall’acqua.
Il pesce “canterino” emette il suo canto grazie a due muscoli specializzati collegati alla vescica natatoria, che agiscono come una sorta di tamburo vibrante. Questi muscoli possono contrarsi fino a 100 volte al secondo, rendendo questo pesce uno degli animali con le contrazioni muscolari più rapide nel regno animale. Il canto viene regolato poi da un oscillatore neurale nel cervello e influenzato da ormoni sessuali, motivo per cui solo i maschi riproduttori territoriali lo emettono.

In natura, la diversità non si manifesta solo tra le specie, ma spesso anche all’interno di una stessa popolazione, soprattutto quando si parla di comportamento riproduttivo. Un esempio straordinario è rappresentato dal Combattente (Calidris pugnax), un uccello limicolo diffuso nelle zone umide dell’Eurasia, celebre per le spettacolari parate nuziali maschili.
La specie è nota per l’esistenza di tre morfotipi maschili distinti, ciascuno con un proprio ruolo, comportamento e strategia riproduttiva. Un autentico caso di polimorfismo comportamentale, raro tra gli uccelli e studiato come modello di evoluzione alternativa del maschio.
Il maschio “territoriale”, indipendente o dominante, è il tipo più noto e spettacolare. Questi maschi sono facilmente riconoscibili per il collare piumoso (gorgiera) e la cuffia che assumono durante la stagione degli amori, in colori e disegni estremamente variabili. Ogni individuo ha un piumaggio unico, come una “firma” visiva. Difende un piccolo territorio all’interno del lek, un’area comune dove i maschi si esibiscono per attirare le femmine. Ingaggia duelli ritualizzati con altri maschi territoriali e cerca di monopolizzare la presenza femminile nel suo spazio, attraendo le femmine con parate elaborate e posture dominanti, grazie alle quali riesce ad ottenere la maggior parte delle copule.
Il maschio “satellite” è morfologicamente simile a quello territoriale, ma con colori più chiari e meno contrastati, spesso biancastri o grigiastri. Non possiede un proprio territorio, né cerca di dominarne uno. Si aggira ai margini dei territori degli indipendenti, assumendo una posizione subalterna, ma è tollerato dai dominanti perché non rappresenta una minaccia diretta. Tuttavia, approfitta della confusione durante la presenza delle femmine per ottenere copule furtive.
Infine vi è il maschio “faeder”, femminilizzato o mimetico, che è la forma più sorprendente, in quanto non sviluppano affatto il piumaggio ornamentale: restano simili alle femmine sia per dimensioni che per aspetto. Sono indistinguibili a prima vista, se non tramite esame genetico o osservazione del comportamento. Si comportano un po’ da “infiltrati”: si aggirano tra femmine e altri maschi senza essere riconosciuti come rivali e riuscendo pertanto a copulare con le femmine eludendo la sorveglianza dei maschi dominanti.
Le tre strategie maschili non sono solo comportamentali, ma geneticamente determinate. Uno specifico cromosoma supergene è responsabile della presenza dei tipi “satellite” e “faeder”, rendendo il polimorfismo stabile nel tempo.
Questa suddivisione non è transitoria o dovuta all’età, ma riflette un equilibrio evolutivo tra successo riproduttivo, competizione e costi energetici.
Il nome "Combattente" deriva proprio dai confronti rituali tra maschi durante la stagione degli amori.
In natura, non esiste un solo modo di crescere. Alcuni animali si adattano all’ambiente in modo così estremo da cambiare letteralmente forma e comportamento. È il caso della salamandra tigre (Ambystoma tigrinum), un anfibio nordamericano capace di svilupparsi in due forme larvali ben distinte. Due stili di vita, due strategie, un solo codice genetico. Ma cosa spinge una larva a diventare “normale” o… cannibale?
La salamandra tigre è una delle più grandi salamandre terrestri del continente americano. Il suo nome deriva dal disegno a bande o macchie gialle su sfondo scuro che ricorda, appunto, la livrea di una tigre. Vive in ambienti umidi e boscosi, e si riproduce in stagni temporanei o permanenti.
Le sue larve acquatiche, simili a piccoli tritoni, respirano attraverso branchie esterne e si nutrono di invertebrati acquatici. Fin qui, tutto normale… finché non interviene il polifenismo.
Si tratta della capacità di un organismo di sviluppare forme fisiche diverse a partire dallo stesso patrimonio genetico, in risposta a condizioni ambientali. Non è mutazione genetica, ma una risposta flessibile a ciò che accade intorno.
Nel caso della salamandra tigre, questo significa che alcune larve crescono normalmente, mentre altre sviluppano una morfologia “cannibale”. Ciò avviene quando le condizioni ambientali sono critiche, ad esempio: troppa densità di larve nello stagno, pochi alimenti disponibili, presenza di larve di taglia diversa. Le larve pertanto sviluppano una testa più grande, mascelle robuste e denti più affilati. Queste sono le forme cannibali, capaci di nutrirsi delle altre larve, spesso più piccole.
Una strategia estrema, ma evolutivamente vantaggiosa: meno competizione e più energia per crescere.
Il comportamento cannibale non è irreversibile; alcune larve, in ambienti meno stressanti, non attivano il fenotipo cannibale, anche se potenzialmente potrebbero. È la natura che “sceglie” in base alle circostanze.
Autore: Roberto Vatore

Nel cuore delle foreste tropicali dell’America Centrale vive un piccolo primate che, oltre alla sua vivacità e agilità, si distingue per un comportamento particolare: i maschi si prendono cura dei cuccioli. Stiamo parlando del Tamarino di Geoffroy (Saguinus geoffroyi), una scimmia che ha rivoluzionato il concetto di paternità nel mondo animale.
In molte specie animali, il compito dell’accudimento ricade quasi esclusivamente sulle femmine. Ma nel caso del Tamarino di Geoffroy, il copione si capovolge: sono i maschi a occuparsi della prole per la maggior parte del tempo.
Dopo il parto, spesso gemellare, la madre allatta i piccoli nelle prime settimane, ma poi affida il trasporto quotidiano dei cuccioli ai maschi. Questi li portano sulle spalle per tutto il giorno, li proteggono, li curano e li stimolano per le funzioni fisiologiche, come urinare e defecare. La madre interviene solo al momento dell’allattamento, per poi tornare a riposare o alimentarsi, risparmiando così preziose energie.
Questo sistema di cura condivisa è una vera strategia di sopravvivenza: allevare due piccoli contemporaneamente è un compito faticoso, e senza l’aiuto dei maschi, il successo riproduttivo della specie sarebbe compromesso.
Questo primate vive in gruppi sociali coesi e cooperativi, dove anche gli individui non riproduttivi, come giovani o altri membri del branco, partecipano alle cure parentali.
Prendersi cura dei piccoli non solo rafforza i legami all’interno del gruppo, ma offre ai giovani maschi un’opportunità per imparare i comportamenti genitoriali. Si crea così una trasmissione di competenze che contribuisce alla stabilità e all’efficienza della struttura sociale.
Il ruolo del maschio va ben oltre la riproduzione: essere un buon genitore è parte integrante del successo evolutivo. Questo esempio dimostra che, nel mondo animale, i modelli di comportamento non sono rigidi, ma estremamente adattabili e legati all’ambiente e all’organizzazione sociale della specie.
In un contesto in cui la cura dei piccoli richiede uno sforzo collettivo, la “mascolinità” si misura nella capacità di collaborare, accudire e proteggere. Una lezione che può far riflettere anche il nostro stesso modo di intendere la genitorialità.
Autore: Roberto Vatore

Quando la dimensione conta e il pasto si conquista con la forza (e con l’età). Il drago di Komodo (Varanus komodoensis) è uno dei predatori più temuti del pianeta. Con il suo aspetto preistorico, la lingua biforcuta e il morso potenzialmente letale, incarna alla perfezione l’idea di rettile dominante. Ma dietro la sua fama da solitario cacciatore si nasconde una realtà sorprendentemente sociale… almeno quando si tratta di dividere il pasto.
Nel mondo dei varani di Komodo, la tavola è aperta a tutti, ma a una sola condizione: rispettare la gerarchia alimentare! Quando un grande animale, come un bufalo o un cervo, cade vittima di un attacco da parte di uno o più draghi di Komodo, l’odore del sangue può attirare anche decine di esemplari nel giro di pochi minuti. A quel punto, inizia una sorta di “banchetto rituale” regolato da una precisa scala di priorità.
I primi a nutrirsi sono gli adulti più grandi e robusti, che possono superare i 2,5 metri di lunghezza e pesare oltre 70 kg. Seguono gli individui subadulti, che attendono con una certa distanza che i dominanti si sazino o si spostino. Solo alla fine, i giovani e i piccoli possono avvicinarsi a ciò che resta.
Questa gerarchia si basa su un semplice principio: la legge del più forte. Nessun individuo osa infrangere questo ordine, perché il rischio è di finire vittima non di un predatore esterno, ma dei propri simili. È ben documentato infatti il fenomeno del cannibalismo intra-specifico: circa il 10% della dieta dei draghi adulti può includere altri varani, in particolare cuccioli e giovani.
Per questa ragione, gli individui più piccoli passano i primi anni della loro vita nascosti tra gli alberi, dove gli adulti non possono raggiungerli. Solo una volta cresciuti abbastanza e raggiunta una taglia “di sicurezza” iniziano a frequentare il suolo con regolarità, e solo gradualmente conquistano un posto nel ciclo alimentare dei grandi predatori.
Autore: Roberto Vatore

Tra le creature più misteriose e affascinanti del regno animale, la talpa dorata occupa un posto d’onore. Nonostante le sue dimensioni ridotte e l'aspetto apparentemente semplice, questo piccolo mammifero è uno degli animali più sfuggenti al mondo tale da essere diventata un simbolo della biodiversità nascosta dell’Africa meridionale, nonché un emblema degli animali "fantasma" della zoologia moderna.
Evolutivamente, si sono adattate in modo straordinario alla vita sotterranea, sviluppando una morfologia altamente specializzata per scavare e vivere sottoterra.
Uno degli esemplari più rari e iconici della famiglia è la talpa dorata di De Winton (Cryptochloris wintoni), di cui non si registrano avvistamenti confermati da oltre 80 anni. È diventata così elusiva che alcuni biologi la considerano possibilmente estinta, mentre altri la inseriscono tra gli “animali perduti”, in attesa di essere riscoperti.
Il nome “dorata” non è casuale. La pelliccia di queste talpe è setosa e iridescente, riflettendo sfumature dorate, bronzee o verdastre a seconda della specie e dell’illuminazione. Questo effetto non ha una funzione estetica, ovviamente, ma pare che la struttura del pelo renda più agevole il movimento nel terreno, riducendo l’attrito e permettendo una penetrazione più fluida nella sabbia o nel suolo compatto.
Le talpe dorate sono creature completamente fossorie: non emergono mai in superficie, se non accidentalmente. Sono cieche, con occhi ridotti e coperti dalla pelle, e fanno affidamento su un senso dell’udito e del tatto molto sviluppati per orientarsi. Scavano tunnel alla ricerca di insetti, larve e altri piccoli invertebrati, vivendo una vita silenziosa e invisibile agli occhi umani.
Alcune specie, come la talpa dorata del deserto (Eremitalpa granti), sono note per essere eccezionalmente adattate agli ambienti aridi, come le sabbie mobili del deserto del Namib, dove “nuotano” letteralmente nella sabbia asciutta, un comportamento unico tra i mammiferi.
La difficoltà nel localizzarle rende complesso qualsiasi sforzo di conservazione. Alcune specie potrebbero essere già estinte senza che ce ne siamo accorti. La perdita di habitat, la frammentazione ambientale e lo sviluppo urbano sono minacce dirette e concrete.
Parlare della talpa dorata significa accendere un riflettore su tutte quelle specie “dimenticate”, che vivono ai margini della nostra attenzione mediatica e scientifica. Ogni essere vivente, anche il più nascosto, svolge un ruolo fondamentale negli equilibri ecologici. Proteggere la talpa dorata non è solo un atto di conservazione, ma anche un gesto simbolico: significa proteggere la biodiversità che ancora non conosciamo.
Autore: Roberto Vatore

Quando il maschio e la femmina si distinguono… a colpo d’occhio!
Nel cuore delle foreste del Madagascar vive un animale che sorprende per il suo aspetto e per la sua organizzazione sociale: il lemure macaco (Eulemur macaco). È un primate di medie dimensioni, diurno, agile e frugivoro, tipico delle foreste pluviali del nord-ovest dell’isola, in particolare nella riserva naturale di Lokobe e nelle zone circostanti. Ma ciò che rende davvero unico questo lemure è una caratteristica che salta subito all’occhio: maschi e femmine hanno un aspetto completamente diverso.
Si tratta di un caso spettacolare di dimorfismo sessuale cromatico, un fenomeno raro tra i primati, e ancora più curioso se si considera che, a prima vista, maschi e femmine sembrano addirittura appartenere a specie differenti.
Nel lemure macaco, i maschi hanno un aspetto inconfondibile: il loro corpo è interamente ricoperto da una pelliccia nerissima, lucida e uniforme. Al contrario, le femmine presentano un manto marrone-rossastro, con tonalità più chiare sul volto e, in alcune varianti, anche una sorta di mascherina scura attorno agli occhi.
Questa differenza è così evidente che, nei primi studi zoologici, si era arrivati a pensare che si trattasse di due specie diverse. Solo con l’osservazione diretta dei gruppi sociali e con l’analisi genetica si è potuto stabilire che erano semplicemente il maschio e la femmina della stessa specie.
Il perché di una distinzione così netta tra i sessi è ancora oggetto di studio, ma le ipotesi sono affascinanti.
Una prima spiegazione riguarda il riconoscimento sociale: in gruppi numerosi, dove le relazioni sociali sono complesse, distinguere immediatamente il sesso degli individui potrebbe aiutare a evitare conflitti, facilitare l’accoppiamento o il rispetto delle gerarchie.
Un'altra possibile motivazione risiede nel fatto che, come in molte altre specie di lemuri, anche nel lemure macaco le femmine sono dominanti sui maschi. Il colore del mantello potrebbe quindi essere un segnale visivo legato al ruolo sociale, contribuendo a regolare le dinamiche di gruppo.
Infine, è possibile che la colorazione giochi un ruolo nella selezione sessuale, influenzando la scelta del partner. Tuttavia, nei lemuri la femmina ha spesso un ruolo attivo nella selezione, rendendo il quadro ancora più interessante.
Tra tutti i primati conosciuti, pochissimi mostrano un dimorfismo sessuale visibile nei colori del mantello. La maggior parte delle differenze tra maschi e femmine nei primati riguarda dimensioni corporee, comportamenti, vocalizzazioni o tratti anatomici (come i canini nei maschi di alcune specie). Il lemure macaco, quindi, rappresenta un’eccezione affascinante, utile per studiare come e perché si sviluppano queste differenze tra i sessi.
Autore: Roberto Vatore

Nel cuore delle foreste pluviali del Sud-est asiatico vive un animale sorprendente, poco conosciuto e spesso frainteso: il lemure volante. Il nome è affascinante, ma fuorviante. Infatti, questo curioso mammifero né vola davvero, né è un lemure. Si tratta di un colugo, appartenente a un piccolo gruppo di animali chiamati Dermotteri, composto da sole due specie viventi.
I colughi sono animali arboricoli, cioè vivono sugli alberi, e sono attivi di notte. Le due specie oggi conosciute sono: il colugo della Sonda (Galeopterus variegatus), diffuso in Malesia, Indonesia, Thailandia e Singapore, e il colugo delle Filippine (Cynocephalus volans), che vive solo in alcune isole delle Filippine.
Nonostante le apparenze, i colughi sono strettamente imparentati con i primati, molto più di quanto lo siano i pipistrelli o gli scoiattoli volanti. Hanno occhi grandi, perfetti per la visione notturna, e una morfologia unica.
La loro caratteristica più spettacolare è la capacità di planare da un albero all’altro. I colughi non hanno ali, ma un'enorme membrana di pelle chiamata patagio che si estende tra il collo, le zampe, la coda e persino le dita. Questo "mantello" li trasforma in perfetti planatori, capaci di percorrere fino a 70 metri in un solo salto, con grande precisione e controllo.
Di giorno i colughi restano nascosti tra le fronde, mimetizzati grazie al pelo grigiastro o marrone. Di notte, si muovono alla ricerca di foglie, germogli, fiori e frutti, che costituiscono la loro dieta principale.
Le femmine sono molto protettive: i piccoli nascono ancora immaturi e vengono tenuti stretti al corpo, avvolti nella membrana come in una sorta di marsupio vivente.
Oltre alla planata, i colughi presentano altri tratti unici. Hanno denti a forma di pettine, usati per pulire il loro folto mantello, e un corpo completamente adattato alla vita sugli alberi. Tuttavia, nonostante vivano tra i rami, sono piuttosto goffi nell’arrampicata, e preferiscono planare da un albero all’altro piuttosto che spostarsi camminando o scalando.