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A differenza dell’occhio umano che è capace di vedere attraverso i fotorecettori l’intera gamma di colori, quello dei nostri amici cani è in grado di distinguere soltanto una porzione dello spettro visibile e quindi soltanto alcuni colori; pertanto occorrerà da subito sfatare il mito della vista in bianco e nero di questi adorabili animali da compagnia. Di certo non vedranno il mondo così come lo vediamo noi, multicolorato e nitido. Loro possiedono due tipi di fotorecettori, quello per le tinte blu e quello per le tinte gialle, rosse e verdi che, molto probabilmente, vengono viste indistintamente in giallo e gli oggetti in modo più sbiadito.
Ma c’è di più; i cani in un certo senso sono anche tendenzialmente “presbiti”, in quanto vedono relativamente poco bene da vicino e dalla media distanza (ad esempio, ciò che una persona riesce ad osservare ad una distanza di circa 23 metri, un cane lo vede sfocato già a partire dai 6 metri) mentre ben diversa è la loro vista da lontano, decisamente più performante.
Ma non è tutto, i cani hanno gli occhi posizionati in modo da avere un campo visivo a 240 gradi, contro i nostri 180 gradi, con una zona di visione binoculare e due di visione monoculare di 80 gradi ciascuna. La loro visione periferica gli consente pertanto di percepire piccoli movimenti e con grande rapidità. Tuttavia, andrebbe altresì considerato che tali parametri presentano una certa variabilità a seconda della razza canina; ad esempio mentre un pastore tedesco, che ha occhi posti lateralmente, possiede un buon campo visivo a discapito della visione binoculare, un pechinese che ha occhi frontali, possiede invece un’ottima visione binoculare ma un ridotto campo visivo.
Che i cavi elettrici di potenza o di controllo siano tra i primi obiettivi dell’attività di rosicchiamento di topi e ratti è cosa ormai accertata da tempo, rimangono tuttavia oscure o solo parzialmente determinate le cause di tale comportamento.
La necessità di rosicchiare materiali che abbiano una certa consistenza per affilare i denti incisivi, a crescita continua, è solo il primo dei motivi degli attacchi ai rivestimenti dei conduttori. Il polietilene, materiale con cui vengono isolati la maggior parte dei cavi elettrici, è preferito in quanto tale, infatti anche in assenza di un qualsiasi campo elettromagnetico, generato dal cavo quando viene attraversato da una corrente, questo viene eroso lo stesso.
Il secondo, di natura più complessa, è quello che coinvolge le perturbazioni spaziali provocate dai campi elettrici e/o magnetici generati dai conduttori posti a differenze di potenziale o attraversati da correnti elettriche. Qualsiasi conduttore, infatti, produce un capo elettrico associato, che esiste anche quando nel conduttore non scorre alcuna corrente, contrariamente al campo magnetico concatenato che si genera solo quando si ha movimento di cariche; quando cioè nel conduttore circola corrente. In entrambe queste situazioni i roditori in generale, ed il Topolino delle case (Mus domesticus) in particolare, sembrano modificare il loro comportamento al punto da essere attratti dalle sorgenti di tali perturbazioni spaziali.
Non esistono a tutt’oggi evidenze sperimentali che provino la capacità di queste specie di “sentire” i campi elettromagnetici, unica spiegazione, anch’essa non dimostrata sperimentalmente, potrebbe essere quella basata sull’attrattività del materiale già delucidata, che induce l’esemplare a rosicchiare il rivestimento del conduttore sommata e rafforzata dalla sensazione di “formicolio” che l’animale è sicuramente in grado di percepire, esercitata dalla polarizzazione delle labbra e del pelo posti in questi campi di forze.
C'è chi preferisce abitare al primo o al secondo piano di un palazzo e c'è chi invece desidera scegliersi l'appartamento più in alto, magari al sesto o al settimo piano. L'albero di Castagno abita volentieri "nei piano di mezzo"; sui monti, che sono la loro casa, lo troviamo infatti fra i 400 e i 1.000 metri sopra il livello del mare. Gli "inquilini" di sotto sono le Viti, al piano di sopra vegetano i Faggi e all'ultimo abitano i Pini e i Larici. Tuttavia, dove il clima è ben caldo, il Castagno preferisce "scegliere" la sua casa più in alto: pertanto, sulle pendici dell'Etna, in Sicilia, si possono trovare alcuni esemplari anche anche ad altezze di 1.700 metri. Lì ad esempio esiste un famoso esemplare plurimillenario noto con il nome di "Castagno dei 100 cavalieri". Questo particolarissimo appellativo deriva da una leggenda dove si narra che sotto la sua vastissima chioma un giorno trovarono riparo 100 cavalieri sorpresi all'aperto da un furioso temporale. Il suo diametro misura ben 20 metri.
Ci ritroviamo spesso nel corso della nostra quotidianità a rincorrere con affanno l’inesorabile scorrere del tempo, avvertendo a volte un senso di frustrazione perché ci rendiamo conto di non essere abbastanza “veloci” per tenergli testa e perché vediamo i nostri sforzi e i continui sacrifici non concretizzarsi nell’immediato.
Come in ogni cosa esistono però delle eccezioni: persone a cui non interessa più di tanto essere al passo con il tempo, che vivono la vita così come viene senza tante pretese e senza minimamente affannarsi e a cui non interessa essere veloci; probabilmente sono anche quelle persone che “vivono più a lungo” e meglio. Loro magari si saranno sentiti pronunciare la seguente esclamazione: “sei lento come un bradipo”!
Ebbene, in natura il Bradipo è esattamente così a causa del suo lento metabolismo: riesce a dormire anche venti ore di seguito, interrompendo quel sonno solo quel poco che gli basta per consumare lentamente le foglie e i frutti che compongono la sua dieta e che digerisce con altrettanta lentezza. Esso infatti vive sugli alberi dell’America meridionale, spostandosi appena fra i rami e avventurarsi raramente sul terreno, dove si trova poco a suo agio; alla massima velocità raggiunge appena gli 0,16 chilometri orari. Ciò significherebbe che in una pseudogara di 100 metri, impiegherebbe circa 40 minuti per tagliare il traguardo.
L’Australia è un “serbatoio” di specie endemiche, ovvero di quelle specie che vivono solo in un determinato territorio, tra cui il simpaticissimo e tanto adorato Koala (Phascolarctos cinereus). È un mammifero marsupiale che possiede una dieta altamente specializzata composta da germogli e tenere foglie di alcune specie arboree di eucalipto (ne arriva a consumare fino a mezzo chilo al giorno, nelle ore serali, e da lì riesce a trarre anche tutta l’acqua di cui ha bisogno).
Essendo la sua dieta vegetariana decisamente povera di nutrienti è costretto a muoversi tra le chiome delle piante molto lentamente e a trascorrere gran parte del suo tempo dormendo sui rami o restando abbracciato ai tronchi con i suoi grossi unghioni.
Due sono i principali motivi che spingono, di rado, il Koala a scendere dagli alti fusti degli eucalipti: per cambiare albero o per raccogliere e inghiottire qualche sassolino che lo aiuti nella digestione.
Gli squali purtroppo godono di una immeritata “cattiva” reputazione di animali dall’incredibile ferocia, capaci con le loro fauci di divorare barche intere per raggiungere la loro preda preferita: l’uomo. Così viene rappresentato uno spaventoso esemplare della specie di Squalo bianco (Carcharodon carcharias) nel famosissimo film di Steven Spielberg del 1975 “Lo squalo”. Nonostante le possenti caratteristiche morfologiche di queste creature, la realtà è però totalmente diversa… e di certo le dimensioni corporee e il suo comportamento non sono quelle rappresentate nel suddetto film e nei suoi sequel.
Tuttavia bisogna però ammettere che la loro bocca è davvero molto imponente con i suoi numerosi ed affilatissimi denti. Uno squalo possiede contemporaneamente fino a 300 denti; ma la cosa più sorprendente è che possono arrivare a sostituire anche fino a 30.000 denti nel corso della loro vita, per cui sono sempre costantemente presenti. Essi infatti sono ancorati su più file lungo i bordi delle mascelle superiori ed inferiori. Qui, non appena ha luogo la sostituzione di un dente, quello della fila più interna si sposta su quella esterna, per tramite di un tessuto costituito da pelle, per sostituire il dente danneggiato o mancante allineandosi con tutti gli altri della stessa fila.
La Lontra marina (Enhydra lutris) è il più piccolo dei mammiferi marini, vive e si alimenta in mare dove sfoggia a pieno le sue abilità acquatiche. Il corpo perfettamente idrodinamico, una coda simile ad un “timone” per la propulsione in acqua, un’eccellente vista subacquea, i polmoni grandi il doppio rispetto a quelli di un animale terrestre di taglia simile e naturalmente il folto mantello impermeabile consentono a questo mustelide di nuotare ed immergersi liberamente nell’Oceano Pacifico settentrionale e di destreggiarsi abilmente lungo le sue coste. Vive in gruppi anche molto numerosi e sono soliti galleggiare sull’acqua posizionandosi a pancia in su, per poi immergersi alla ricerca delle sue prede preferite come le orecchie di mare, i ricci di mare e i molluschi. Quando non riescono ad aprire con i loro possenti molari arrotondati i gusci e le conchiglie più dure, portano su dal fondale una pietra che verrà poggiata sul loro petto e che servirà da “incudine” su cui battere l’arcigno mollusco.
Un altro comportamento del tutto particolare adottato dalla mamma Lontra è quello di tenere teneramente per mano il suo cucciolo, o addirittura abbracciandolo, mentre dormono evitando in questo modo di venire separate dalla corrente durante il sonno.
Chi ha detto che i pappagalli sono gli unici uccelli più colorati al mondo?
In realtà esistono anche altre specie di volatili tra cui la Colomba Frugivora Superba (Ptilinopus superbus). Non ci crederete, ma questo uccello dai colori così sgargianti è un parente molto stretto del nostro tanto disprezzato Colombo di città.
La colorazione del piumaggio, diverso tra i due sessi, consente loro di camuffarsi tra i frutti e il fogliame nelle foreste della regione australasiatica da Sulawesi, attraverso la Nuova Guinea, fino alle Isole Salomone e nell’Australia nordorientale ed orientale.
E’ un migratore parziale, nel senso che effettua spostamenti a corto raggio, e vive solo o in coppia, anche se talvolta numerosi individui si radunano in prossimità di abbondanti fonti di cibo, principalmente piccoli frutti oleosi offerti dagli alberi della foresta.
I nido è rappresentato da una piattaforma composta di rametti ed è situata su un albero o su una liana.
In natura esistono somiglianze fisiche, sia fra le specie animali che fra quelle vegetali.
Tali somiglianze possono essere il risultato di caratteristiche fenotipiche (morfologiche e funzionali) quali espressione della costituzione genetica di un organismo e del suo legame con un dato ambiente, oppure di una strategia molto diffusa in natura, chiamata “mimetismo”.
Nel primo caso, la similitudine fra due specie è quasi sicuramente dovuta, come nella maggior parte dei casi, da un rapporto stretto di parentela (come di individui appartenenti alla stessa Famiglia sistematica) decisamente evidente ad esempio tra il Leopardo e il Giaguaro, oppure tra la Taccola e la Cornacchia grigia, all’interno del regno animale, o ancora tra la Farnia e il Rovere, in quello vegetale, e così via…
Nel mimetismo, invece, una specie anche molto distante da un’altra dal punto di vista parentale (naturalmente lo stesso discorso vale anche tra un essere vivente con un dato ambiente, vedi il caso del mitico “trasformista” Camaleonte) può assomigliargli anche solo per un particolare specifico, con lo scopo di trarne un vantaggio. E’ un po’ quello che accade negli insetti appartenenti ad ordini diversi, come ad esempio tra i ditteri, in cui vi rientrano le fastidiosissime mosche, e gli imenotteri, insetti dotati di una complessa struttura sociale come le formiche, api, vespe e calabroni.
La gran parte delle specie appartenenti a queste due categorie, in genere, non si assomigliano per nulla fra loro, fatta eccezione per una particolare famiglia di ditteri, i Sirfidi, che possiedono un addome con la colorazione a bande gialle e nere molto simile a quello delle vespe e calabroni, alle quali cercano in tutti i modi assomigliargli per sfruttare il loro stesso messaggio di “attenzione o pericolo” rivolto ai predatori, ma che a differenza di loro non sono assolutamente in grado di concretizzare nel caso dovessero trovarsi a tu per tu con un intrepido antagonista.
A volte però esistono delle similitudini davvero sbalorditive addirittura tra specie appartenenti a regni differenti (vegetale e animale). Solo per citarne alcune: il caso della Mantide orchidea, un altro insetto questa volta dell’ordine degli Ortotteri che abita le foreste tropicali di tutto il mondo eccetto l’Australia che, grazie alla sua singolare colorazione vivace (nella tonalità che va dal rosa al verde brillante) e ai disegni lungo il suo corpo, possiede la capacità di mimetizzarsi perfettamente con i fiori delle orchidee sui quali si posano, in attesa della loro preda.
Le orchidee sono piante caratterizzate da una notevole variabilità di forme e colori. Ne esistono circa 19.500 specie in tutto il mondo che si prestano bene, chi più chi meno, ad essere imitate e perché no, anche ad imitare come il caso dell’Orchidea scimmia (Dracula simia) detta anche Orchidea dracula in quanto cresce nelle foreste ombrose spesso attraversate da una fitta nebbia, richiamando l’habitat spettrale del famoso Conte. Molto più pertinente è invece il soprannome che le viene attribuito di Orchidea scimmia per il disegno della sua corolla che vista frontalmente ricorda proprio il viso di una scimmia; infatti se osserviamo una sua foto, la somiglianza è davvero impressionante!
Si tratta di un orchidea sempreverde diffusa nelle foreste tropicali dell’Ecuador e della Colombia, solitamente posizionate alla base degli alberi con i fiori costituiti da 3 sepali arrotondati, alle volte uniti alla base, e con le foglie sottili che possono raggiungere una lunghezza tra i 15 ed i 30 cm. Cresce durante tutto l’arco dell’anno e non entra mai in riposo vegetativo, aspetto che purtroppo non consente di stabilire con esattezza il momento preciso della sua fioritura e con la relativa esibizione della “scimmia che è in lei”.
La forma estrema di altruismo capace di indurre l’essere umano a sacrificare la propria vita per il bene di una comunità o di un ideale, non è una sua esclusiva… La storia purtroppo ci ha raccontato, e continua a farlo, di casi di malsano altruismo come quello di esseri umani, fanatici e senza scrupoli, capaci di lasciarsi esplodere nel nome di un Dio da loro considerato “supremo”, frutto di distorte interpretazioni coraniche, seminando ovunque panico e terrore sotto l’acronimo quasi impronunciabile di ISIS, o ancora di soldati giapponesi che nella seconda guerra mondiale per difendere la loro Patria si lanciavano in picchiata sui loro nemici a bordo di aerei carichi di esplosivo, impetuosi come un “vento divino”; così che si facevano chiamare con l’appellativo che noi tutti però conosciamo di “kamikaze”.
Ciò che spinge l’uomo moderno ad un atto così estremo di sacrificare la propria vita a discapito dei suoi simili non ha alcuna giustificazione e non rientra affatto nella sua natura di essere pensante, acculturato, dotato di ragionamento logico e di coscienza morale. Ciò però non va assolutamente confuso con un’altra forma straordinaria di altruismo assolutamente nobile che spinge ad esempio una mamma, in presenza di un pericolo, a mettere a rischio la propria vita, e in alcuni casi addirittura perderla, per salvare quella del proprio figlio.
Anche se non molto diffusi, in natura esistono casi di altruismo estremo che spingono alcune specie animali a sacrificare la propria vita per il bene della comunità ed è proprio quello che accade ad una particolare specie di formica, appartenente all'ordine degli Imenotteri (ordine in cui vi rientrano anche le vespe e le api), che per difendere la sopravvivenza del formicaio si fa letteralmente esplodere come una vera e propria formica kamikaze, termine che in questo caso risuona più leggero. Il suo nome scientifico è Camponotus saundersi, comunemente nota come Formica mietitrice della Malesia, la cui esplosione è dovuta a una repentina contrazione della muscolatura addominale che provoca la rottura delle due grosse sacche piene di veleno corrosivo e viscoso che viene così spruzzato in ogni direzione mettendo in fuga l'intruso a beneficio della colonia. Ma l’aspetto più importante è che, a differenza dell’uomo, tale comportamento si presenta sin dalla nascita e rientra pertanto nel corredo di reazioni istintive.
Non è leggenda, né mitologia e né tanto meno fantascienza, ma semplicemente pura realtà di un animale attualmente esistente che vive negli abissi. Può arrivare a profondità oceaniche di circa 2.800 metri, dove le condizioni climatiche (buio e basse temperature) sono assolutamente inospitali per quelle specie di organismi animali marini che conosciamo molto bene o che abbiamo sentito parlare, ma che riserva invece numerose sorprese di vita animale con alcune specie che attendono ancora di essere scoperte.
Ebbene il pesce vipera (Chauliodus sloani) è proprio uno degli abitanti di questi ambienti, dalle stranissime fattezze con le sue mostruose fauci armate di denti molto affilati e dotato di organi luminosi disposti sui fianchi che diffondono una luce violetta punteggiata di macchie rosse, che si ritiene serva per attirare le prede. La testa è smisurata se confrontato con il resto del corpo che è un grosso tubo digerente, con uno stomaco capace di dilatarsi al punto tale da accogliere all’interno una preda più voluminosa di lui. Questo è il motivo per il quale, insieme alla presenza di una dentatura molto sviluppata, viene soprannominato pesce vipera, la cui dieta si compone generalmente di alcuni granchietti, ovviamente di profondità, che afferra non appena gli passano vicino oppure dopo un breve inseguimento. I suoi denti possiedono solo la funzione di catturare le prede e non anche per masticarle.
Come si può immaginare, lo studio di questo pesce non è affatto semplice e, seppure riesca a volte a risalire dagli abissi fino a profondità di 500 metri, le pressioni molto forti a cui gli esemplari sono inevitabilmente sottoposti, non gli consentono di sopportare risalite troppo rapide.
Sapevate che esiste un mammifero dalle ragguardevoli dimensioni, e che noi tutti conosciamo molto bene, capace di secernere dal proprio corpo un liquido oleoso simile al nostro sudore di colore rosa o addirittura rosso vivo? Ebbene questa peculiarità è tipica dell’ippopotamo, Hippopotamus amphibius (membro della famiglia Hippopotamidae), la cui pelle nonostante sia molto spessa (da 3 a 5 cm), non sopporta il disseccamento e lo costringe pertanto a trascorrere gran parte delle giornate parzialmente o totalmente immerso nell’acqua dei fiumi, laghi e paludi dell’Africa sub-sahariana.
A causa della presenza sul loro corpo di uno strato corneo protettivo molto sottile e per di più privo di ghiandole sebacee che possano secernere sostanze utili ad isolare la delicata pelle dai raggi solari, e per evitare tale disseccamento, gli esemplari di questa specie perdono molta acqua per evaporazione con conseguente dispersione del calore in eccesso. Inoltre gli ippopotami sono dotati di alcune ghiandole cutanee che rilasciano questo particolare liquido oleoso di composizione alcalina e ricco di sali minerali che, nel riflettere la luce del sole, appare ai nostri occhi di colore rossastro dando l’impressione come se il corpo dell’animale fosse completamente ricoperto di sangue. Molto spesso però lo sono per davvero a seguito di scontri cruenti e feroci tra individui maschi per contendersi il dominio di un gruppo, generalmente composto da 10-15 esemplari, e per la difesa del territorio, sfoderando come armi i loro aguzzi e possenti canini, accompagnati da un’enorme apertura di bocca di circa 1,2 m.
In definitiva, questa particolare secrezione oleosa, da cui il titolo per questo breve e curioso trafiletto, funge anche da schermo contro la disidratazione quando gli individui non si trovano immersi in acqua; alcuni esperti ritengono addirittura che abbia anche una importante funzione cicatrizzante.
In quest’ultimi anni avrete sicuramente sentito parlare, attraverso campagne pubblicitarie di alcune importanti bevande commercializzate anche in Italia, del dolcificante naturale a base di Stevia, con il famoso slogan “zero calorie”.
Ebbene, le foglie di questa pianta erbacea-arbustiva originaria del Sud America presentano proprio queste straordinarie proprietà di essere cioè degli edulcoranti naturali con un potere dolcificante superiore di circa 200 volte rispetto al saccarosio, il comune zucchero da cucina. Queste proprietà, inizialmente non erano viste di buon’occhio dagli importanti zuccherifici e dalle industrie alimentari in genere che hanno fatto di tutto per boicottare l’utilizzo di questa essenza vegetale, considerandola come una vera potenziale minaccia al loro business.
Su questa pianta, molti anni fa, effettuai accuratissime ricerche che mi hanno portato, con mia grande incredulità, a realizzare addirittura una piccola monografia purtroppo mai pubblicata, proprio dal titolo: “Stevia. La dolce rivoluzione verde” realizzata con lo scopo di far conoscere più da vicino questa pianta e le sue spettacolari proprietà allora sconosciute o, meglio ancora, tenute nascoste.
la Stevia, il cui nome scientifico è Stevia rebaudiana è una pianta perenne appartenente alla famiglia Asteraceae, la stessa famiglia di appartenenza della camomilla comune per intenderci, che possiede piccoli e numerosi fiori ermafroditi di colore bianco e foglie, il pezzo forte della pianta, di forma ovale, con margine seghettato e ricoperte di corta peluria su entrambe le pagine.
Ciò che rende questa pianta così particolare sono i suoi costituenti quali: stevioside, rebaudioside e dulcoside, presenti in maggior concentrazione nelle foglie. A differenza del saccarosio, questi principi attivi non apportano alcun potere nutrizionale al nostro organismo, ecco perché si spiega che sono a “zero calorie” e inoltre sono relativamente stabili alle elevate temperature, per cui mantengono le loro proprietà intatte anche negli alimenti cotti e nelle bevande riscaldate, diversamente dagli altri dolcificanti di sintesi, come l’aspartame, che subiscono invece processi di degradazione.
Prima di salutarvi, vi riporto qui di seguito una foto di una pianta che scattai quando visitai un campo sperimentale interamente destinato alla coltivazione di Stevia rebaudiana per scopi di ricerca e vi posso assicurare che la tentazione di strapparne qualche foglia per assaggiarla era irrefrenabile ed infatti così feci: afferrai una fogliolina e la portai alla mia bocca, quando ad un tratto le mie papille gustative iniziarono a “danzare”, eccitate dal dolcissimo sapore e da uno strano, ma piacevole, retrogusto di liquerizia.
A questo punto, a distanza di tempo, mi domando: “potrà mai la Stevia fornire una risposta valida alla soddisfazione del nostro bisogno di dolci senza comprometterne la salute?”
Dopo tanta attesa, finalmente l’estate sembra sia arrivata per davvero e, come me, immagino anche voi non vedrete l’ora di assaggiare sulle vostre labbra la salsedine del mare e sentire sulla vostra pelle il pizzicorio dell’ardente sole!
Qualche giorno fa, mentre ero intento a cercare nel mio ricco archivio fotografico, e preciso che non sono un fotografo professionista, una foto di alcuni esemplari di molluschi per una mia ricerca, ho recuperato con estremo piacere una vecchia foto che scattai intorno alla metà di giugno di un bel po’ di anni fa su una delle favolose isole Tremiti, in provincia di Foggia, e precisamente sull’isola di San Domino che piacevolmente raggiunsi per motivi lavorativi.
In pratica, durante una piacevole escursione “fai da me” visitai una piccolissima grotta dove rinvenni un piccolo esemplare di crostaceo molto curioso che onestamente non avevo mai visto prima; era lì indisturbato, almeno fino al mio arrivo, su di una canna di bambù fluitata dal mare. Non esitai, prima di rilasciarlo, a fotografarlo e a dare subito sfogo alla mia curiosità effettuando una piccola ricerca per risalire immediatamente al suo “nome e cognome”.
Con grande soddisfazione riuscii ad identificarlo e molto onestamente non ci impiegai molto tempo. Intanto che ne parlo però, non escludo che qualche biologo marino, nel leggere queste mie brevi battute e percepire in questo mio racconto un eccessivo entusiasmo come se mi fossi trovato di fronte ad un “incontro ravvicinato del terzo tipo”, possa ridere a crepapelle e sinceramente ne avrebbe tutte le ragioni perchè in realtà si trattava una specie di crostaceo marino molto comune, il cui nome scientifico è Lepas anatifera.
Questa lepade, appartenente alla sottoclasse dei Cirripedi, è una specie tipica del mediterraneo dotata di un caratteristico lungo peduncolo scuro molto evidente grazie al quale si fissa, per mezzo di sostanze secrete da alcune ghiandole, ad una gran varietà di substrati, fra cui rocce, piloni di sostegno, chiglie di navi, oggetti galleggianti vari, macroalghe, barche, boe e a volte persino sul carapace di tartarughe marine. Da come avrete capito, è una specie che non si muove affatto e i suoi spostamenti avvengono passivamente con le correnti marine. Il corpo, come vedete dalla foto, è protetto da un rivestimento composto da cinque placche calcaree a formare una conchiglia bivalve cuoriforme che può raggiungere dimensioni fino ai 5 cm di lunghezza.
Vi starete ora chiedendo come facciano ad alimentarsi? Ebbene, dalla conchiglia (capitulum) estraggono sei strutture tentacolari chiamate cirri che utilizzano per catturare le prede quali gamberi, polipi e alcuni giovani pesci. Possiedono anche la capacità di filtrare le correnti marine attraverso un apparato di alimentazione.
La Lepas anatifera, nota comunemente anche come Lepade anatra, è ermafrodita e quindi capace di riprodurre sia gameti maschili che femminili, ma per completare la riproduzione necessita della presenza di un altro individuo della stessa specie. Questo fenomeno in gergo tecnico viene definito ermafrodismo insufficiente e si differenzia da quello sufficiente, dove l’organismo si riproduce autonomamente con l’autofecondazione, ma non è questo il caso.
Il Cipresso è una conifera molto diffusa nel nostro Paese e la specie che noi tutti conosciamo è il Cupressus sempervirens, anche se ve ne sono altre che appartengono allo stesso genere.
E’ originaria dei paesi mediterranei orientali e si ritiene che sia stata introdotta in Italia dai Fenici.
Pianta esteticamente molto bella da vedere ed essenziale nel suo portamento; infatti può raggiungere altezze di circa 20-30 m, con il tronco dritto e colonnare, rivestito da una corteccia fessurata longitudinalmente e di colore grigio-bruno, che sostiene una chioma sempreverde dalla tipica forma a “fiamma di candela”. Le foglie in realtà sono delle piccole squame, di colore verde scuro, strettamente addossate le une alle altre o divaricate all'apice, mentre i fiori di colore giallo sono poco appariscenti disposti all’apice dei rami a formare delle infiorescenze ad amento solitarie. I frutti, invece, sono delle piccolissime “pigne” ovoidali dette galbuli di 3 cm di diametro e di colore inizialmente verde lucente, per poi diventare bruni con l’età, a seguito di un processo di lignificazione.
Aldilà delle sue caratteristiche morfologiche, che era doveroso riportare per poterla inquadrare meglio, questa specie ha molteplici impieghi, dalla fabbricazione di mobili all’ebanisteria, all’industria farmaceutica per l’estrazione di olii dalle proprietà balsamiche e ovviamente, non meno importante, la funzione ornamentale. In quest’ultimo caso, il cipresso è stato da sempre un elemento ricorrente nel paesaggio rurale toscano, mentre nelle regioni meridionali lo si trova spesso in corrispondenza delle aree cimiteriali. Vi starete sicuramente chiedendo il perché di quest’ultimo strano abbinamento, anch’esso molto ricorrente.
Ebbene esistono due principali motivazioni, uno di carattere prettamente tecnico e l’altro simbolico. Nel primo caso, le radici del Cipresso hanno uno sviluppo orientato verticalmente in profondità invece che orizzontalmente, come avviene invece nelle querce, evitando così di creare problemi di sollevamento delle tombe.
Ma decisamente più affascinante è la simbologia che si attribuisce a questo albero quale simbolo dell’immortalità come emblema della vita eterna dopo la morte. Infatti, per la sua verticalità assoluta, l’erigersi verso l’alto, il cipresso indica l’anima che si avvia verso il regno celeste.
Nell’antica Grecia era considerato l’albero di Ade, dio dei morti, e il suo cupo fogliame esprimeva malinconia e dolore, al punto tale che i sacerdoti di Ade se ne facevano delle corone e se ne cospargevano le vesti duranti i sacrifici. L’origine mitologica del cipresso è narrata nella leggenda greca di Ciparisso. Apollo, il dio del sole, si era invaghito della bellezza del giovane Ciparisso, che aveva per compagno un cervo addomesticato. Mentre un giorno si esercitava con l’arco, Ciparisso colpì mortalmente il cervo. Tanta era la sua disperazione da implorare a sua volta la morte. Apollo, commosso dal dolore del suo amato, lo trasformò in un albero al quale dette il nome di “cipresso”, e che diventò da allora il simbolo del lutto e dell’accesso all’eternità.
In natura esistono alcune specie animali dalle fattezze davvero curiose e il Babirussa (Babyrousa babyrussa) è una tra queste. Potrebbe sembrare, agli occhi dei non esperti, una figura quasi mitologica e allo stesso tempo misteriosa; ma in realtà è ben conosciuta pur essendo certamente uno dei mammiferi meno eleganti presenti sul nostro pianeta.
E’ un animale piuttosto raro e purtroppo a rischio di estinzione, basti considerare che di quei pochi individui esistenti (si ritiene che esista una popolazione di circa 5.000 individui), la maggior parte di essi sono localizzati nell'isola di Sulawesi (Celebes), Indonesia. Attualmente vive in piccoli branchi composti dai cinque ai quindici individui che frequentano corsi e specchi d'acqua essendo tra l’altro un buon nuotatore. Il Babirussa raggiunge gli 80 cm di altezza al garrese con un peso che può oscillare dai 60 ai 100 Kg. Possiedono una corta coda che non supera i 20 cm di lunghezza. Riguardo la biologia, nelle femmine la gestazione dura circa 150 giorni o poco più, al termine del quale nascono da uno a tre piccoli.
Nell’osservarlo più da vicino potremmo notare subito qualche somiglianza con il cinghiale che appartiene alla sua stessa famiglia. Nonostante tutto alcuni naturalisti ritengono, invece, che dal punto di vista biologico e comportamentale sia molto più vicino ad un ippopotamo. Per di più, a differenza degli altri suidi, questa specie presenta una struttura dello stomaco molto simile a quella dei ruminanti ovini; infatti la sua dieta è costituita prevalentemente da alimenti di origine vegetale (frutti, foglie, bacche) oltre che da funghi e larve di insetti.
Il Babirussa possiede una singolare dentatura che la rende curiosa ai nostri occhi, composta da una coppia di canini superiori che crescono alla rovescia. Invece di svilupparsi dall’alto in basso, essi sporgono ai lati del labbro superiore ed emergono sulla testa, sottoforma di corna incurvate, lunghe e affilate che fungono da protezione degli occhi dalle canne presenti negli ambienti umidi frequentati abitualmente dalla specie, mentre la coppia di denti inferiori, chiamate “zanne o difese”, sono più o meno incurvate. Queste parti del corpo sono purtroppo fortemente ricercati dagli indigeni che ne confezionano collane e braccialetti ad uso dei capi delle tribù locali.
Tra i guinness riguardanti il mondo della natura merita di essere segnalato quello del fiore più grande in assoluto presente sul nostro pianeta e probabilmente anche il più maleodorante: ecco a voi l’Aro titano (Amorphophallus titanum).
E’ una specie erbacea perenne, endemica dell’isola di Sumatra in Indonesia, che appartiene alla stessa famiglia delle ben note Calle, quest’ultime con fattezze decisamente più graziose.
La fioritura dura in media dai 3 ai 4 giorni al termine del quale darà forma ad una enorme infiorescenza a spadice alta fino ad oltre i 2 metri che emana un odore particolarmente sgradevole che permane per circa otto ore e che gli indonesiani usano paragonare a quello del cadavere di un elefante in decomposizione. Per alcuni esemplari coltivati in vivaio, tramite bulbi di mezzo metro di diametro e con un peso che si aggira intorno ai 30 kg, è stato possibile registrare una crescita della pianta al ritmo di 7,5-13 cm al giorno.
E ditemi voi se questo non è un gran bel record!
Fino a qualche anno fa si riteneva che la fotosintesi clorofilliana, che noi tutti conosciamo, fosse un processo chimico-biologico riservato esclusivamente al mondo vegetale, ma in realtà non è proprio così o almeno non lo è più dopo una serie di recenti scoperte come quella del comportamento singolare di alcune lumache marine appartenenti al genere Elysia. Pensate che queste specie riescono a sopravvivere addirittura per 10 mesi senza doversi necessariamente alimentare.
Strano ma vero, questo accade perché la loro dieta è composta prevalentemente di alghe attraverso le quali esse assumono i cloroplasti che le conferiscono una colorazione verde e, soprattutto, la capacità di effettuare in parte la fotosintesi. In altre parole si viene così a formare una sorta di chimera tra un animale e una pianta.
Questo mollusco, appartenente alla classe Gastropoda, per nutrirsi perfora con la radula (lingua con piccoli dentini) le cellule delle alghe e ne succhia il contenuto che viene ingerito per poi finire nel tratto digerente che è opportunamente ramificato in modo da essere esteso a quasi tutto il corpo dell’animale. Il citoplasma e gli altri organelli cellulari vengono digeriti, ma i cloroplasti subiscono un ben più interessante e differente destino: vengono inglobati dentro speciali cellule diffuse nel tratto digestivo della lumaca, principalmente all’estremità delle convoluzioni intestinali, e lì continuano a sopravvivere e funzionare.
I cloroplasti sono gli organelli deputati a svolgere la fotosintesi, che in pratica è quel processo che cattura l’anidride carbonica dell’aria e la converte nello zucchero semplice glucosio, con rilascio di ossigeno come materiale di scarto.
La foto che vi propongo appartiene a una di queste specie e precisamente ad Elysia crispata. Come potete notare, la forma del suo corpo si è allargata e appiattita e la superficie dorsale è semitrasparente per consentire la penetrazione dei raggi solari.
E’ noto che gli esseri umani vengono identificati singolarmente da una serie di caratteri e le impronte digitali sono certamente le prime che consentono di distinguere una persona in modo univoco. Oggi molte altre caratteristiche servono allo stesso scopo, come impronte vocali, capelli, fisionomia facciale e della mano, ecc..
Tale fenomeno non è però una caratteristica esclusiva degli esseri umani, ma è presente anche in molte altre specie animali, in maniera differente.
Molti anni fa, insieme ad un amico biologo abbiamo raccolto circa 60 esemplari di Dorifora della patata (Leptinotarsa decemlineata), un coleottero crisomelide ben noto per gli importanti danni che ogni anno causa nel mondo ad alcune piante ortive, principalmente la patata. Ebbene, lo scopo di questa piccola ricerca era di dimostrare semplicemente l’esistenza di caratteristiche individuali uniche anche tra gli insetti, che ne permettono il riconoscimento individuale, analogamente alle nostre impronte digitali. La nostra ricerca è stata poi pubblicata su una rivista: “Il Naturalista Campano”.
Nella foto qui rappresentata, si riportano solo 6 dei 60 esemplari fotografati, dove noterete alcune piccole differenze come: il colore del loro corpo, crema o marrone, le forme delle macchie presenti sul capo e così via.