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Benvenuti in Natuvi! - a cura di Roberto Vatore

Banner per Natuvi DEF

Natuvi è il primo museo naturalistico virtuale che rivoluzionerà per sempre il mondo del web!!

 

Sarà possibile visitare le diverse sezioni del museo e consultare il ricco archivio di schede descrittive, video, album fotografici e tanto altro.

 

Natuvi offre l’opportunità a tutti gli utenti di diventare ricercatori virtuali del museo e rendersi in prima persona artefici del suo sviluppo.

Condividi con noi la tua passione e le tue competenze per una sana e genuina divulgazione scientifica!

 

Natuvi nasce infatti con lo scopo di elaborare e raccogliere materiale informativo e divulgativo sul mondo della natura, condividendolo con tutti gli utenti del progetto (ricercatori virtuali del museo), professionisti del settore, insegnanti, enti pubblici e privati e con chiunque volesse partecipare e contribuire alla creazione sinergica di un “contenitore informativo” liberamente accessibile a tutti.

 

La natura ha bisogno di noi e conoscerla ci aiuta a preservarla!

 

 

 

                                                                                → RACCOMANDAZIONI

I tre volti del maschio di combattente

Combattente

In natura, la diversità non si manifesta solo tra le specie, ma spesso anche all’interno di una stessa popolazione, soprattutto quando si parla di comportamento riproduttivo. Un esempio straordinario è rappresentato dal Combattente (Calidris pugnax), un uccello limicolo diffuso nelle zone umide dell’Eurasia, celebre per le spettacolari parate nuziali maschili.

La specie è nota per l’esistenza di tre morfotipi maschili distinti, ciascuno con un proprio ruolo, comportamento e strategia riproduttiva. Un autentico caso di polimorfismo comportamentale, raro tra gli uccelli e studiato come modello di evoluzione alternativa del maschio.

Il maschio “territoriale”, indipendente o dominante, è il tipo più noto e spettacolare. Questi maschi sono facilmente riconoscibili per il collare piumoso (gorgiera) e la cuffia che assumono durante la stagione degli amori, in colori e disegni estremamente variabili. Ogni individuo ha un piumaggio unico, come una “firma” visiva. Difende un piccolo territorio all’interno del lek, un’area comune dove i maschi si esibiscono per attirare le femmine. Ingaggia duelli ritualizzati con altri maschi territoriali e cerca di monopolizzare la presenza femminile nel suo spazio, attraendo le femmine con parate elaborate e posture dominanti, grazie alle quali riesce ad ottenere la maggior parte delle copule.

Il maschio “satellite” è morfologicamente simile a quello territoriale, ma con colori più chiari e meno contrastati, spesso biancastri o grigiastri. Non possiede un proprio territorio, né cerca di dominarne uno. Si aggira ai margini dei territori degli indipendenti, assumendo una posizione subalterna, ma è tollerato dai dominanti perché non rappresenta una minaccia diretta. Tuttavia, approfitta della confusione durante la presenza delle femmine per ottenere copule furtive.

Infine vi è il maschio “faeder”, femminilizzato o mimetico, che è la forma più sorprendente, in quanto non sviluppano affatto il piumaggio ornamentale: restano simili alle femmine sia per dimensioni che per aspetto. Sono indistinguibili a prima vista, se non tramite esame genetico o osservazione del comportamento. Si comportano un po’ da “infiltrati”: si aggirano tra femmine e altri maschi senza essere riconosciuti come rivali e riuscendo pertanto a copulare con le femmine eludendo la sorveglianza dei maschi dominanti.

Le tre strategie maschili non sono solo comportamentali, ma geneticamente determinate. Uno specifico cromosoma supergene è responsabile della presenza dei tipi “satellite” e “faeder”, rendendo il polimorfismo stabile nel tempo.

Questa suddivisione non è transitoria o dovuta all’età, ma riflette un equilibrio evolutivo tra successo riproduttivo, competizione e costi energetici.

Il nome "Combattente" deriva proprio dai confronti rituali tra maschi durante la stagione degli amori.
 
Autore: Roberto Vatore

Larva acquatica o cannibale? Il sorprendente polifenismo della salamandra tigre

Salamndra tigre 3

In natura, non esiste un solo modo di crescere. Alcuni animali si adattano all’ambiente in modo così estremo da cambiare letteralmente forma e comportamento. È il caso della salamandra tigre (Ambystoma tigrinum), un anfibio nordamericano capace di svilupparsi in due forme larvali ben distinte. Due stili di vita, due strategie, un solo codice genetico. Ma cosa spinge una larva a diventare “normale” o… cannibale?
La salamandra tigre è una delle più grandi salamandre terrestri del continente americano. Il suo nome deriva dal disegno a bande o macchie gialle su sfondo scuro che ricorda, appunto, la livrea di una tigre. Vive in ambienti umidi e boscosi, e si riproduce in stagni temporanei o permanenti.
Le sue larve acquatiche, simili a piccoli tritoni, respirano attraverso branchie esterne e si nutrono di invertebrati acquatici. Fin qui, tutto normale… finché non interviene il polifenismo.
Si tratta della capacità di un organismo di sviluppare forme fisiche diverse a partire dallo stesso patrimonio genetico, in risposta a condizioni ambientali. Non è mutazione genetica, ma una risposta flessibile a ciò che accade intorno.
Nel caso della salamandra tigre, questo significa che alcune larve crescono normalmente, mentre altre sviluppano una morfologia “cannibale”. Ciò avviene quando le condizioni ambientali sono critiche, ad esempio: troppa densità di larve nello stagno, pochi alimenti disponibili, presenza di larve di taglia diversa. Le larve pertanto sviluppano una testa più grande, mascelle robuste e denti più affilati. Queste sono le forme cannibali, capaci di nutrirsi delle altre larve, spesso più piccole.
Una strategia estrema, ma evolutivamente vantaggiosa: meno competizione e più energia per crescere.
Il comportamento cannibale non è irreversibile; alcune larve, in ambienti meno stressanti, non attivano il fenotipo cannibale, anche se potenzialmente potrebbero. È la natura che “sceglie” in base alle circostanze.

 

Autore: Roberto Vatore

Maschi "baby sitter" - Il Tamarino di Geoffroy e la sorprendente paternità condivisa

Tamarino di Geoffroy

Nel cuore delle foreste tropicali dell’America Centrale vive un piccolo primate che, oltre alla sua vivacità e agilità, si distingue per un comportamento particolare: i maschi si prendono cura dei cuccioli. Stiamo parlando del Tamarino di Geoffroy (Saguinus geoffroyi), una scimmia che ha rivoluzionato il concetto di paternità nel mondo animale.
In molte specie animali, il compito dell’accudimento ricade quasi esclusivamente sulle femmine. Ma nel caso del Tamarino di Geoffroy, il copione si capovolge: sono i maschi a occuparsi della prole per la maggior parte del tempo.
Dopo il parto, spesso gemellare, la madre allatta i piccoli nelle prime settimane, ma poi affida il trasporto quotidiano dei cuccioli ai maschi. Questi li portano sulle spalle per tutto il giorno, li proteggono, li curano e li stimolano per le funzioni fisiologiche, come urinare e defecare. La madre interviene solo al momento dell’allattamento, per poi tornare a riposare o alimentarsi, risparmiando così preziose energie.
Questo sistema di cura condivisa è una vera strategia di sopravvivenza: allevare due piccoli contemporaneamente è un compito faticoso, e senza l’aiuto dei maschi, il successo riproduttivo della specie sarebbe compromesso.
Questo primate vive in gruppi sociali coesi e cooperativi, dove anche gli individui non riproduttivi, come giovani o altri membri del branco, partecipano alle cure parentali.
Prendersi cura dei piccoli non solo rafforza i legami all’interno del gruppo, ma offre ai giovani maschi un’opportunità per imparare i comportamenti genitoriali. Si crea così una trasmissione di competenze che contribuisce alla stabilità e all’efficienza della struttura sociale.
Il ruolo del maschio va ben oltre la riproduzione: essere un buon genitore è parte integrante del successo evolutivo. Questo esempio dimostra che, nel mondo animale, i modelli di comportamento non sono rigidi, ma estremamente adattabili e legati all’ambiente e all’organizzazione sociale della specie.
In un contesto in cui la cura dei piccoli richiede uno sforzo collettivo, la “mascolinità” si misura nella capacità di collaborare, accudire e proteggere. Una lezione che può far riflettere anche il nostro stesso modo di intendere la genitorialità.

 

Autore: Roberto Vatore

La gerarchia alimentare del drago di Komodo

Drago di Komodo

Quando la dimensione conta e il pasto si conquista con la forza (e con l’età). Il drago di Komodo (Varanus komodoensis) è uno dei predatori più temuti del pianeta. Con il suo aspetto preistorico, la lingua biforcuta e il morso potenzialmente letale, incarna alla perfezione l’idea di rettile dominante. Ma dietro la sua fama da solitario cacciatore si nasconde una realtà sorprendentemente sociale… almeno quando si tratta di dividere il pasto.
Nel mondo dei varani di Komodo, la tavola è aperta a tutti, ma a una sola condizione: rispettare la gerarchia alimentare! Quando un grande animale, come un bufalo o un cervo, cade vittima di un attacco da parte di uno o più draghi di Komodo, l’odore del sangue può attirare anche decine di esemplari nel giro di pochi minuti. A quel punto, inizia una sorta di “banchetto rituale” regolato da una precisa scala di priorità.
I primi a nutrirsi sono gli adulti più grandi e robusti, che possono superare i 2,5 metri di lunghezza e pesare oltre 70 kg. Seguono gli individui subadulti, che attendono con una certa distanza che i dominanti si sazino o si spostino. Solo alla fine, i giovani e i piccoli possono avvicinarsi a ciò che resta.
Questa gerarchia si basa su un semplice principio: la legge del più forte. Nessun individuo osa infrangere questo ordine, perché il rischio è di finire vittima non di un predatore esterno, ma dei propri simili. È ben documentato infatti il fenomeno del cannibalismo intra-specifico: circa il 10% della dieta dei draghi adulti può includere altri varani, in particolare cuccioli e giovani.
Per questa ragione, gli individui più piccoli passano i primi anni della loro vita nascosti tra gli alberi, dove gli adulti non possono raggiungerli. Solo una volta cresciuti abbastanza e raggiunta una taglia “di sicurezza” iniziano a frequentare il suolo con regolarità, e solo gradualmente conquistano un posto nel ciclo alimentare dei grandi predatori.

 

Autore: Roberto Vatore

La talpa dorata: uno degli animali più sfuggenti al mondo

Talpa dorata

Tra le creature più misteriose e affascinanti del regno animale, la talpa dorata occupa un posto d’onore. Nonostante le sue dimensioni ridotte e l'aspetto apparentemente semplice, questo piccolo mammifero è uno degli animali più sfuggenti al mondo tale da essere diventata un simbolo della biodiversità nascosta dell’Africa meridionale, nonché un emblema degli animali "fantasma" della zoologia moderna.
Evolutivamente, si sono adattate in modo straordinario alla vita sotterranea, sviluppando una morfologia altamente specializzata per scavare e vivere sottoterra.
Uno degli esemplari più rari e iconici della famiglia è la talpa dorata di De Winton (Cryptochloris wintoni), di cui non si registrano avvistamenti confermati da oltre 80 anni. È diventata così elusiva che alcuni biologi la considerano possibilmente estinta, mentre altri la inseriscono tra gli “animali perduti”, in attesa di essere riscoperti.
Il nome “dorata” non è casuale. La pelliccia di queste talpe è setosa e iridescente, riflettendo sfumature dorate, bronzee o verdastre a seconda della specie e dell’illuminazione. Questo effetto non ha una funzione estetica, ovviamente, ma pare che la struttura del pelo renda più agevole il movimento nel terreno, riducendo l’attrito e permettendo una penetrazione più fluida nella sabbia o nel suolo compatto.
Le talpe dorate sono creature completamente fossorie: non emergono mai in superficie, se non accidentalmente. Sono cieche, con occhi ridotti e coperti dalla pelle, e fanno affidamento su un senso dell’udito e del tatto molto sviluppati per orientarsi. Scavano tunnel alla ricerca di insetti, larve e altri piccoli invertebrati, vivendo una vita silenziosa e invisibile agli occhi umani.
Alcune specie, come la talpa dorata del deserto (Eremitalpa granti), sono note per essere eccezionalmente adattate agli ambienti aridi, come le sabbie mobili del deserto del Namib, dove “nuotano” letteralmente nella sabbia asciutta, un comportamento unico tra i mammiferi.
La difficoltà nel localizzarle rende complesso qualsiasi sforzo di conservazione. Alcune specie potrebbero essere già estinte senza che ce ne siamo accorti. La perdita di habitat, la frammentazione ambientale e lo sviluppo urbano sono minacce dirette e concrete.
Parlare della talpa dorata significa accendere un riflettore su tutte quelle specie “dimenticate”, che vivono ai margini della nostra attenzione mediatica e scientifica. Ogni essere vivente, anche il più nascosto, svolge un ruolo fondamentale negli equilibri ecologici. Proteggere la talpa dorata non è solo un atto di conservazione, ma anche un gesto simbolico: significa proteggere la biodiversità che ancora non conosciamo.

 

Autore: Roberto Vatore

Dimorfismo sessuale del lemure macaco

Lemure macaco

Quando il maschio e la femmina si distinguono… a colpo d’occhio!
Nel cuore delle foreste del Madagascar vive un animale che sorprende per il suo aspetto e per la sua organizzazione sociale: il lemure macaco (Eulemur macaco). È un primate di medie dimensioni, diurno, agile e frugivoro, tipico delle foreste pluviali del nord-ovest dell’isola, in particolare nella riserva naturale di Lokobe e nelle zone circostanti. Ma ciò che rende davvero unico questo lemure è una caratteristica che salta subito all’occhio: maschi e femmine hanno un aspetto completamente diverso.
Si tratta di un caso spettacolare di dimorfismo sessuale cromatico, un fenomeno raro tra i primati, e ancora più curioso se si considera che, a prima vista, maschi e femmine sembrano addirittura appartenere a specie differenti.
Nel lemure macaco, i maschi hanno un aspetto inconfondibile: il loro corpo è interamente ricoperto da una pelliccia nerissima, lucida e uniforme. Al contrario, le femmine presentano un manto marrone-rossastro, con tonalità più chiare sul volto e, in alcune varianti, anche una sorta di mascherina scura attorno agli occhi.
Questa differenza è così evidente che, nei primi studi zoologici, si era arrivati a pensare che si trattasse di due specie diverse. Solo con l’osservazione diretta dei gruppi sociali e con l’analisi genetica si è potuto stabilire che erano semplicemente il maschio e la femmina della stessa specie.
Il perché di una distinzione così netta tra i sessi è ancora oggetto di studio, ma le ipotesi sono affascinanti.
Una prima spiegazione riguarda il riconoscimento sociale: in gruppi numerosi, dove le relazioni sociali sono complesse, distinguere immediatamente il sesso degli individui potrebbe aiutare a evitare conflitti, facilitare l’accoppiamento o il rispetto delle gerarchie.
Un'altra possibile motivazione risiede nel fatto che, come in molte altre specie di lemuri, anche nel lemure macaco le femmine sono dominanti sui maschi. Il colore del mantello potrebbe quindi essere un segnale visivo legato al ruolo sociale, contribuendo a regolare le dinamiche di gruppo.
Infine, è possibile che la colorazione giochi un ruolo nella selezione sessuale, influenzando la scelta del partner. Tuttavia, nei lemuri la femmina ha spesso un ruolo attivo nella selezione, rendendo il quadro ancora più interessante.
Tra tutti i primati conosciuti, pochissimi mostrano un dimorfismo sessuale visibile nei colori del mantello. La maggior parte delle differenze tra maschi e femmine nei primati riguarda dimensioni corporee, comportamenti, vocalizzazioni o tratti anatomici (come i canini nei maschi di alcune specie). Il lemure macaco, quindi, rappresenta un’eccezione affascinante, utile per studiare come e perché si sviluppano queste differenze tra i sessi.

 

Autore: Roberto Vatore

Un "volo" planare

Colugo

Nel cuore delle foreste pluviali del Sud-est asiatico vive un animale sorprendente, poco conosciuto e spesso frainteso: il lemure volante. Il nome è affascinante, ma fuorviante. Infatti, questo curioso mammifero né vola davvero, né è un lemure. Si tratta di un colugo, appartenente a un piccolo gruppo di animali chiamati Dermotteri, composto da sole due specie viventi.

I colughi sono animali arboricoli, cioè vivono sugli alberi, e sono attivi di notte. Le due specie oggi conosciute sono: il colugo della Sonda (Galeopterus variegatus), diffuso in Malesia, Indonesia, Thailandia e Singapore, e il colugo delle Filippine (Cynocephalus volans), che vive solo in alcune isole delle Filippine.

Nonostante le apparenze, i colughi sono strettamente imparentati con i primati, molto più di quanto lo siano i pipistrelli o gli scoiattoli volanti. Hanno occhi grandi, perfetti per la visione notturna, e una morfologia unica.

La loro caratteristica più spettacolare è la capacità di planare da un albero all’altro. I colughi non hanno ali, ma un'enorme membrana di pelle chiamata patagio che si estende tra il collo, le zampe, la coda e persino le dita. Questo "mantello" li trasforma in perfetti planatori, capaci di percorrere fino a 70 metri in un solo salto, con grande precisione e controllo.

Di giorno i colughi restano nascosti tra le fronde, mimetizzati grazie al pelo grigiastro o marrone. Di notte, si muovono alla ricerca di foglie, germogli, fiori e frutti, che costituiscono la loro dieta principale.

Le femmine sono molto protettive: i piccoli nascono ancora immaturi e vengono tenuti stretti al corpo, avvolti nella membrana come in una sorta di marsupio vivente.

Oltre alla planata, i colughi presentano altri tratti unici. Hanno denti a forma di pettine, usati per pulire il loro folto mantello, e un corpo completamente adattato alla vita sugli alberi. Tuttavia, nonostante vivano tra i rami, sono piuttosto goffi nell’arrampicata, e preferiscono planare da un albero all’altro piuttosto che spostarsi camminando o scalando.

 
Autore: Roberto Vatore

Escrementi cubici del vombato comune

Escrementi cubici

No, non è affatto un riferimento al famoso videogioco minecraft, dove ogni elemento del mondo è composto da cubi!

Nella realtà delle stranezze naturali, ci sono fenomeni che fanno sorridere, altri che fanno riflettere, e alcuni che fanno entrambe le cose. Tra questi, uno dei più curiosi e affascinanti riguarda un mammifero australiano tanto schivo quanto straordinario: il vombato comune (Vombatus ursinus). Questo animale, dall’aspetto tozzo e bonario, è diventato famoso in tutto il mondo per un motivo molto insolito: produce escrementi a forma di cubo.

Sì, esattamente così: cubi. Non sfere, non cilindri, non masse amorfe… ma cubi quasi perfetti.

Il vombato è un marsupiale notturno che vive nel sud-est dell’Australia e in Tasmania. Con il suo corpo compatto, le zampe corte e forti e una testa robusta, scava profonde gallerie sotterranee dove trascorre gran parte della giornata. Di notte, esce per nutrirsi di erba, radici e cortecce.

Tutto nella sua biologia è adattato alla vita scavatrice e solitaria. Ma quello che ha attirato l’attenzione di zoologi, etologi e persino ingegneri è il modo in cui questo animale marca il territorio: attraverso feci dalla forma squadrata.

Ogni vombato può produrre fino a un centinaio di “cubetti” al giorno, lunghi circa 2 cm per lato. Questi escrementi vengono lasciati in punti strategici, spesso su rocce o tronchi, e servono a marcare il territorio. La loro forma cubica, apparentemente bizzarra, si rivela molto pratica: i cubi non rotolano, restano ben fermi sul posto, e questo li rende segnali stabili e duraturi per gli altri vombati.

Per anni, si è pensato che questa forma potesse dipendere da qualche particolare struttura dell’ano. Ma studi recenti hanno svelato la vera origine del mistero.

Nel 2019, un gruppo di ricercatori australiani ha pubblicato uno studio pionieristico che ha rivelato come il segreto dei cubi si trovi nell’intestino del vombato. Il loro colon, infatti, non è uniforme: presenta sezioni con elasticità diversa che, durante il passaggio delle feci, creano variazioni di pressione e modellano progressivamente il materiale in forma cubica.

Il processo avviene lentamente: il cibo impiega circa 4-5 giorni per attraversare il sistema digestivo del vombato. Durante questo tempo, l’intestino assorbe gran parte dell’acqua, rendendo le feci molto secche e compatte, ideali per mantenere la loro curiosa forma.

Il vombato è diventato, suo malgrado, un’icona della scienza divulgativa. La sua singolare caratteristica è stata protagonista di articoli, documentari, perfino giochi didattici per bambini e mostre museali. Ma oltre al lato curioso, c’è anche un messaggio importante: la natura trova le sue soluzioni più eleganti dove meno ce lo aspettiamo, anche... nei suoi prodotti di scarto.

 
Autore: Roberto Vatore

Poliandria: il caso della Jacana

JacanaNel vasto e variegato mondo degli uccelli, i sistemi riproduttivi adottati dalle diverse specie mostrano una notevole plasticità, ma uno dei più sorprendenti, e apparentemente controintuitivi rispetto alla norma, è la poliandria, ovvero la strategia in cui una femmina si accoppia con più maschi. Tra i casi più emblematici di questa rara forma di organizzazione sociale troviamo quello della jacana, un uccello tropicale delle zone umide appartenente alla famiglia Jacanidae.

Nelle jacane, in particolare nella specie Jacana spinosa, assistiamo a un vero e proprio ribaltamento dei ruoli sessuali convenzionali. A differenza di quanto avviene nella maggior parte degli uccelli (dove le femmine si occupano della covata e i maschi competono per accoppiarsi), nelle jacane le femmine sono più grandi dei maschi, un tratto morfologico strettamente legato alla dominanza. Sono inoltre territoriali e difendono ampi territori che includono più nidi e più partner maschili; quest’ultimi si occupano interamente delle cure parentali, dalla costruzione del nido all’incubazione delle uova e alla cura dei pulcini.
Ecco come funziona: durante la stagione riproduttiva, una femmina può stabilire un territorio che include fino a 4–5 maschi, ciascuno con un proprio nido. La femmina depone le uova in successione nei diversi nidi maschili. Ogni maschio costruisce il proprio nido galleggiante tra la vegetazione acquatica, incuba le uova per circa 22–24 giorni, protegge e nutre i piccoli fino al loro svezzamento, che avviene in 3–4 settimane.
La femmina, nel frattempo, continua a difendere il suo territorio da altre femmine, cercando di assicurarsi l’accesso a nuove opportunità riproduttive.
Questo sistema non è privo di tensioni. Le femmine possono distruggere nidi di altre femmine concorrenti per assicurarsi più maschi disponibili, oppure i maschi possono abbandonare il nido se percepiscono che la femmina non difende adeguatamente il territorio.
La jacana spinosa rappresenta uno straordinario esempio di come l’evoluzione possa generare strategie riproduttive alternative, ribaltando le dinamiche sociali classiche e dimostrando che in natura non esiste un solo "modello vincente".
 
Autore: Roberto Vatore

Un veleno che paralizza

Solenodonte

Nel fitto delle foreste di Cuba, lontano dai riflettori della grande fauna caraibica, si aggira un animale notturno, primitivo e a dir poco straordinario: il Solenodonte cubano (Solenodon cubanus), noto localmente come almiquí. Un piccolo mammifero che, oltre ad essere uno dei più rari e misteriosi al mondo, nasconde un’arma segreta: la saliva velenosa. Non stiamo parlando di un veleno passivo, come accade per certi rospi o pesci tropicali, ma di un meccanismo attivo di iniezione simile a quello dei serpenti.
Il solenodonte possiede denti inferiori solcati, simili a piccole zanne canalicolate, attraverso il quale, riesce a iniettare una saliva tossica capace di immobilizzare o paralizzare le sue prede, come insetti, vermi e piccoli vertebrati. Un tratto rarissimo tra i mammiferi: solo pochi altri, come l'ornitorinco maschio o alcune specie di toporagno, condividono questa strategia.
Si muove al crepuscolo o di notte, rasentando il terreno e perlustrando il sottobosco con il suo lungo muso ipersensibile. Grazie al suo olfatto fine e alla capacità di percepire le vibrazioni del suolo, riesce a scovare anche le prede più nascoste.

Una volta individuata la vittima, la morde con decisione, lasciando che il veleno faccia effetto: paralisi rapida e ingestione facilitata. È una strategia efficiente, silenziosa, e adattata perfettamente alla vita notturna.

 

Autore: Roberto Vatore

I primi colonizzatori del Madagascar

Tenrec

Nel cuore dell’Oceano Indiano, il Madagascar ospita una delle biodiversità più affascinanti e misteriose del pianeta. L'isola è un laboratorio evolutivo a cielo aperto, popolato da animali unici che non si trovano in nessun altro luogo. Ma tra lemuri saltellanti, camaleonti mutacolore e baobab giganteschi, c'è un gruppo di piccoli mammiferi poco conosciuti, ma fondamentali nella storia naturale dell’isola: i Tenrec.

Sono un gruppo di mammiferi originari dell’Africa, ma oggi endemici quasi esclusivamente del Madagascar. Hanno un'origine antica, risalente a oltre 50 milioni di anni fa, e sono considerati tra i primi colonizzatori terrestri del Madagascar.

Sono un esempio straordinario di radiazione adattativa: in assenza di concorrenti, si sono evoluti in una varietà di forme, comportamenti e ambienti, occupando nicchie ecologiche diversissime, alcune delle quali oggi altrove ricoperte da roditori, ricci o talpe.

Ma come hanno raggiunto il Madagascar?

Secondo le ricostruzioni paleogeografiche e genetiche, i tenrec sarebbero arrivati fluttuando su zattere naturali di vegetazione staccatesi dalle coste dell’Africa, spinte dalle correnti oceaniche. Un viaggio di centinaia di chilometri, apparentemente impossibile, ma che avrebbe consentito loro di colonizzare un'isola vergine, priva di predatori e competitori.

Una volta arrivati, si sono evoluti in forme così diverse che a prima vista non sembrano neppure parenti tra loro: ci sono tenrec che sembrano topi, altri simili a ricci, altri ancora che ricordano lontanamente le lontre o le talpe.

Uno dei più noti è il Tenrec ecaudatus, detto tenrec comune: un animale robusto, con pelliccia spinosa, che ricorda molto un riccio europeo, pur non avendo alcuna parentela diretta con esso. Questo è un tipico esempio di convergenza evolutiva, dove specie distanti sviluppano soluzioni simili in ambienti analoghi.

Essendo tra i primi mammiferi placentati ad arrivare sull’isola, i tenrec hanno avuto milioni di anni di vantaggio evolutivo. Mentre lemuri e carnivori (come il fossa) sono arrivati successivamente, i tenrec avevano già preso possesso di una vasta gamma di habitat: foreste pluviali, savane, zone montuose, paludi.

Pur essendo oggi poco appariscenti e poco conosciuti, questi animali svolgono ruoli ecologici fondamentali: predatori di invertebrati, aeratori del suolo, prede per numerosi carnivori endemici.

 
Autore: Roberto Vatore

Una carovana di toporagni

fila di toporagniA volte la natura ci sorprende con comportamenti tanto curiosi quanto funzionali. È il caso della Crocidura russula, il cosiddetto toporagno comune, un piccolo mammifero insettivoro dal metabolismo vertiginoso e dalla vita frenetica. Ma c’è un aspetto del suo comportamento che affascina etologi e naturalisti: la formazione in fila indiana dei piccoli durante gli spostamenti.

Quando la madre deve spostare la sua nidiata da un rifugio all’altro, magari perché disturbata o alla ricerca di un ambiente più sicuro, i piccoli non vengono trasportati a uno a uno come accade in molte altre specie. Formano invece una catena vivente, nella quale ogni cucciolo si attacca con la bocca alla base della coda del fratellino che lo precede, mentre l’ultimo della fila si tiene stretto al posteriore della madre.
Il risultato? Una piccola processione ordinata che si muove tra erba, fogliame e radici, seguendo la guida materna. Un comportamento tanto tenero quanto strategico.
Questa “fila indiana” è un comportamento innato e adattativo. I cuccioli, ancora poco coordinati e vulnerabili, rischierebbero di disperdersi e attirare predatori se seguissero la madre singolarmente. Il contatto fisico continuo: assicura coesione del gruppo, facilita l’apprendimento del tragitto e riduce il rischio di smarrimento o predazione.
Inoltre, la madre può così trasportare l’intera nidiata contemporaneamente, risparmiando tempo ed energia preziosa.
Questo comportamento non è unico della Crocidura russula: è stato osservato anche in altre specie di soricidi. Si ritiene che sia un tratto evolutivo comparso come soluzione per il trasporto collettivo in ambienti densi o potenzialmente pericolosi, dove la rapidità di spostamento e la discrezione sono fondamentali.
Quella che a prima vista può sembrare una scenetta buffa, una fila di piccoli toporagni aggrappati alla mamma, è in realtà il risultato di milioni di anni di evoluzione e un esempio brillante di comportamento sociale adattativo. Questa specie ci insegna, nel suo piccolo, quanto la cooperazione e la connessione fisica possano fare la differenza nella sopravvivenza.

 

Autore: Roberto Vatore

Locuste: da sedentarie a migratorie

L. migratorie

Non si può non rimanere affascinati dalla bellezza e dal candore dei fiori di Loto, piante acquatiche apprezzate in tutto il mondo per i loro imponenti e colorati fiori, le cui specie più diffuse sono il Loto sacro (Nelumbo nucifera), originario dell’Asia e dell’Australia e il Loto americano (Nelumbo lutea), originario invece dell’America centro-meridionale.
La particolarità di queste piante, a crescita rapida e rinvenibili solitamente nelle acque stagnanti, risiede nelle loro ampie foglie caratterizzate da una particolare struttura superficiale che le rende completamente idrofobiche, per cui l’acqua “non le bagna” ma scivola via rapidamente.
Con le nanotecnologie si cerca di riprodurre esattamente questa proprietà per alcuni materiali quali tessuti e vernici, alla quale viene attribuito l'appellativo di “effetto loto”.
Se solo provassimo anche noi, nel nostro piccolo, ad imparare a mettere in pratica “l’effetto loto” nella gestione di alcune situazioni che ci riguardano più da vicino e ci turbano e che magari sono anche apparentemente insignificanti o di scarsa importanza, riusciremmo ad affrontare e superare con più fluidità certi ostacoli della vita; in altre parole provando anche noi a “farci scivolare le cose di dosso”, proprio come fanno le foglie il Loto con l’acqua, eviteremmo senz’altro di cadere in loop ossessivi che non ci consentirebbero di svincolarci da quei pensieri, spesso associati a paure angoscianti, a cui dovremmo assolutamente porre un freno.

 

Autore: Roberto Vatore

Il Bambù: la pianta dai ritmi straordinari che cresce fino a 90 cm al giorno

bambu

Quando si parla di crescita vegetale, il bambù è senza dubbio un vero campione della natura. Con un ritmo impressionante che può raggiungere i 90 cm al giorno, alcune specie di bambù sono tra le piante a più rapido accrescimento al mondo. Ma come riesce questa incredibile pianta a crescere così velocemente?

Il bambù non è un albero, come molti potrebbero pensare, ma una graminacea gigante, appartenente alla famiglia delle Poaceae. La sua struttura interna è progettata per massimizzare la crescita. I fusti del bambù, detti culmi, crescono da rizomi sotterranei che fungono da vere e proprie "centrali energetiche". Questi rizomi accumulano riserve di nutrienti, consentendo alla pianta di germogliare rapidamente e di svilupparsi in modo impressionante.

Il segreto della velocità di crescita del bambù risiede nei suoi internodi, le sezioni cave dei culmi. Ogni segmento si espande simultaneamente grazie alla divisione cellulare rapida e all'allungamento delle cellule già esistenti. Questo processo, noto come crescita intercalare, consente al bambù di crescere in altezza senza dover prima aumentare la sua base, a differenza di molti altri alberi.

E’ estremamente efficiente nell'assorbimento di acqua e nutrienti dal suolo. Può crescere in terreni poveri e in diverse condizioni climatiche, sfruttando al massimo ciò che l'ambiente offre. Inoltre, è una pianta molto adattabile e capace di sopravvivere anche in condizioni di stress idrico.

Alcune specie di bambù utilizzano un processo di fotosintesi noto come "C4", che è particolarmente efficiente nella conversione di luce solare, acqua e anidride carbonica in energia. Questo sistema rende il bambù una pianta ideale per crescere rapidamente in climi tropicali e subtropicali.

La sua crescita rapida non è solo impressionante dal punto di vista scientifico, ma ha anche un enorme impatto ecologico. È una pianta chiave in molti ecosistemi, fornendo rifugio e cibo per numerose specie animali, come i panda giganti, e contribuendo alla stabilizzazione del suolo e alla riduzione dell'erosione.

E’ anche una risorsa altamente sostenibile. Viene utilizzato in edilizia, artigianato, produzione di carta, mobili, tessuti e persino come alimento. Le sue proprietà antibatteriche e la resistenza lo rendono una scelta ecologica per molte applicazioni industriali.

Il bambù non è solo una meraviglia biologica, ma anche un simbolo di adattabilità e forza. La sua capacità di crescere in condizioni avverse e di raggiungere altezze straordinarie in poco tempo lo rende una pianta straordinaria, che continua a ispirare culture di tutto il mondo.

 

Autore: Roberto Vatore

Sapevi che il polpo ha tre cuori e il suo sangue è blu?

polpo 

Il polpo, uno degli abitanti più straordinari degli abissi marini, è una creatura che non smette mai di stupire per le sue incredibili caratteristiche. Tra queste, due particolarità affascinanti sono la presenza di tre cuori e il suo sangue blu, tratti che lo distinguono dalla maggior parte degli animali terrestri e marini. Ma a cosa servono queste peculiarità?
Il polpo possiede un sistema circolatorio complesso che include tre cuori: due cuori branchiali, situati vicino alle branchie che hanno il compito di pompare il sangue verso le branchie, dove viene ossigenato e un cuore sistemico che distribuisce il sangue ossigenato al resto del corpo, garantendo che i tessuti ricevano i nutrienti e l'energia necessari.
Una curiosità interessante è che il cuore sistemico si ferma temporaneamente quando il polpo nuota. Questo è il motivo per cui i polpi preferiscono strisciare o muoversi lentamente sul fondo del mare; nuotare richiede uno sforzo maggiore e un consumo maggiore di energia.
A differenza della maggior parte degli animali, il sangue del polpo è di colore blu. Questo è dovuto alla presenza di emocianina, una proteina ricca di rame che trasporta l'ossigeno. L’emocianina è particolarmente efficace in ambienti freddi e con poco ossigeno, come le profondità marine in cui vivono molti polpi.
Il sangue blu non è solo una curiosità estetica: è una soluzione biologica che permette ai polpi di sopravvivere in condizioni difficili, garantendo un’efficiente distribuzione dell'ossigeno anche in acque poco ossigenate.
Oltre ai suoi straordinari sistemi interni, il polpo è famoso per la sua capacità di mimetizzarsi perfettamente con l’ambiente. Questa abilità è resa possibile grazie ai cromatofori, cellule pigmentate specializzate nella sua pelle che gli permettono di cambiare colore e texture in un istante. Questa capacità viene usata sia per confondersi con l’ambiente sia per spaventare i predatori.
Un’altra caratteristica straordinaria è il sistema nervoso autonomo presente in ogni tentacolo, che consente al polpo di muoverli in modo indipendente e con una precisione incredibile.
Il polpo è una delle creature più affascinanti del nostro pianeta. Le sue straordinarie capacità e adattamenti evolutivi lo rendono un vero gioiello della biodiversità marina.
La natura non smette mai di sorprenderci!
 
Autore: Roberto Vatore

Il Ragno pavone

maratus volans

Il ragno pavone (Maratus volans) è una delle creature più affascinanti che si possano trovare nei boschi tropicali dell'America centrale e meridionale.

Questo straordinario aracnide ha il corpo minuto ma dai colori vibranti che sembrano dipinti con l'acquerello più brillante. Il ragno pavone deve il suo nome alla sua incredibile somiglianza con la splendida piuma del pavone, con le sue sfumature di blu, verde, rosso e giallo che si mescolano in un'esplosione di colore.

Ma la sua bellezza non si ferma solo all'aspetto esterno. Il ragno pavone è anche noto per il suo straordinario rituale di corteggiamento. Immaginatevi uno spettacolo di danza in miniatura: il maschio agita le sue zampe con grazia, solleva l'addome mostrando i suoi colori sgargianti e intreccia movimenti complessi e ritmati per catturare l'attenzione della femmina.

Ma non è solo una questione di apparenza. Il ragno pavone svolge anche un ruolo fondamentale nell'ecosistema forestale. Si ciba principalmente di insetti, aiutando a mantenere l'equilibrio della popolazione di prede e contribuendo al ciclo naturale della vita nella foresta pluviale.

Tuttavia, nonostante la sua bellezza e il suo ruolo vitale nell'ecosistema, il ragno pavone è purtroppo minacciato dalla perdita di habitat e dalla deforestazione delle foreste tropicali.

 

Autore: Roberto Vatore

Alla scoperta della biodiversità urbana

Biodiversit urbana

Le città, con il loro intenso traffico e l'imponente skyline, possono sembrare lontane dall'idea di natura selvaggia. Tuttavia, se ci soffermiamo a osservare con attenzione, scopriremo un mondo affascinante di biodiversità urbana, dove la flora e la fauna hanno trovato un modo per adattarsi e prosperare in un ambiente in continua evoluzione.
Le piante sono tra i primi colonizzatori delle città, trovando spazio tra l'asfalto delle strade e le crepe nei marciapiedi. Le erbacce, spesso considerate fastidiose, sono in realtà adattate a sfruttare le risorse disponibili, mentre gli alberi lungo le strade forniscono ombra e habitat per uccelli e insetti. Anche i giardini pubblici e i parchi urbani offrono un rifugio per una vasta gamma di piante, da fiori selvatici a alberi secolari.
Ma non sono solo le piante a trovare spazio nelle città. Gli animali, grandi e piccoli, hanno imparato a vivere in armonia con l'ambiente urbano. Dagli uccelli canori che costruiscono i loro nidi tra le grondaie ai pipistrelli che trovano riparo nei crepacci dei palazzi, la città offre una varietà di habitat che permette a molte specie di prosperare.
I piccioni sono tra gli uccelli più comuni nelle città di tutto il mondo, mentre le volpi si sono adattate sorprendentemente bene alla vita urbana, scavando tane nei parchi e nei terreni abbandonati. Anche insetti come api e farfalle trovano nutrimento nei fiori dei giardini e delle aiuole cittadine.
Tuttavia, la biodiversità urbana non è senza sfide. L'inquinamento luminoso, l'inquinamento atmosferico e la perdita di habitat naturale minacciano molte specie. Inoltre, l'espansione delle città può portare alla frammentazione degli habitat e alla separazione delle popolazioni, rendendo più difficile per gli animali muoversi e trovare cibo e rifugio.
Pertanto, è importante per le città adottare politiche di pianificazione urbana che tengano conto della biodiversità e degli ecosistemi locali. La creazione di parchi e corridoi verdi, la conservazione di aree naturali e la promozione della vegetazione autoctona possono contribuire a proteggere e aumentare la biodiversità urbana.
La biodiversità urbana è un aspetto importante della vita nelle città moderne. Esplorare la varietà di specie animali e vegetali che si trovano tra gli edifici e le strade può aprirci gli occhi su un mondo sorprendente di adattamento e sopravvivenza, e ci ricorda il legame intrinseco tra l'umanità e la natura che ci circonda.
 
Autore: Roberto Vatore

L'odore della pioggia

pioggia 2

L'odore della pioggia è un'esperienza sensoriale unica che incanta e ispira molti di noi. È quel profumo fresco e terroso che si sprigiona nell'aria quando la pioggia cade sulla terra asciutta. Ma cosa causa questo profumo?

L'odore della pioggia, chiamato petricor, deriva dalla combinazione di vari fattori ambientali. Quando la pioggia cade sul terreno, rilascia particelle chiamate aerosol, che possono includere oli essenziali, sostanze organiche e composti chimici. Uno dei principali contributori al petricor è l'olio essenziale rilasciato dalle piante durante i periodi di siccità, che viene trasportato nell'aria e si mescola con i composti chimici prodotti dai batteri del suolo.

Quando la pioggia cade, le gocce d'acqua colpiscono il terreno e rompono queste particelle, rilasciando così il caratteristico odore. Il petricor è anche associato al composto chimico chiamato geosmina, prodotto dai batteri del suolo durante la pioggia. Questo composto è particolarmente abbondante nelle zone rurali e può contribuire al profumo distintivo della pioggia.

 

Autore: Roberto Vatore

La neve rossa

Un fenomeno sorprendente ha attirato l'attenzione delle persone di tutto il mondo: la neve rossa che ha colorato le catene montuose del Nevada. Questo evento insolito ha generato meraviglia e curiosità tra gli scienziati e gli appassionati di fenomeni naturali, portando alla ricerca di spiegazioni scientifiche dietro questa spettacolare manifestazione.
Le prime segnalazioni di neve rossa sono state fatte da escursionisti e residenti della zona, che hanno notato un'incredibile tinta rosso acceso sulle vette delle montagne del Nevada.
Gli esperti hanno iniziato ad indagare sulle possibili cause di questa neve rossa, escludendo l'inquinamento atmosferico o altre cause antropiche. Si è scoperto che la colorazione rossa della neve è stata causata da un fenomeno noto come "alga di neve" o "alga rossa". Queste microalghe, appartenenti principalmente al genere Chlamydomonas o alga verde euglena, si sviluppano in condizioni ambientali particolari, come la neve fresca e la luce solare intensa.
L'alga rossa produce un pigmento rosso noto come astaxantina, che le conferisce il caratteristico colore rosso-arancio. Quando le condizioni sono favorevoli, queste alghe si moltiplicano rapidamente e possono formare fioriture che colorano la neve circostante.
Sebbene l'aspetto della neve rossa possa essere spettacolare e affascinante da osservare, gli esperti avvertono che la presenza di alghe rosse può avere conseguenze negative sull'ambiente circostante. Queste fioriture di alghe possono accelerare il processo di fusione della neve, causando un rilascio più rapido dell'acqua e influenzando la stabilità degli ecosistemi montani.
Inoltre, alcuni scienziati ritengono che l'aumento della frequenza di fioriture di alghe rosse potrebbe essere correlato ai cambiamenti climatici e alle variazioni delle condizioni ambientali. Studiare questi fenomeni è fondamentale per comprendere meglio l'impatto dei cambiamenti climatici sugli ecosistemi montani e per adottare strategie di gestione ambientale più efficaci.
 
Autore: Roberto Vatore

 

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